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La “questione meridionale” e il brigantaggio nell’Italia unità

Un paese a due velocità

 

Con la conquista, da parte delle truppe regolari del Regno di Sardegna, della fortezza di Gaeta nel 1860, il Regno delle Due Sicilie non esiste più; tuttavia la guerra, al di là delle dichiarazioni ufficiali, è lungi dall’essere terminata. Quelli immediatamente successivi all’Unità sono probabilmente gli anni più difficili per il Meridione, che vive una crisi comparabile solo a quella dell’ultimo anno del XVIII secolo e l’enorme conflitto che si scatena, costando al solo esercito italiano più perdite di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme, è frutto del convergere di vari fattori.

La dinastia di Borbone, pur annientata militarmente, conserva nell’ex regno moltissimi seguaci e, dall’esilio di Roma, Francesco II e Maria Sofia finanziano e organizzano una guerra per bande che, come nel 1799 con l’Armata della Santa Fede di Fabrizio Ruffo, avrebbe dovuto restituire loro il trono. L’impresa dei Mille, inoltre, perde ben presto gran parte della sua portata rivoluzionaria: già in Sicilia le promesse di Garibaldi sulla divisione dei latifondi tra i contadini si rivelano illusorie e, come nel ben noto episodio di Bronte 1, le occupazioni contadine si concludono con una sanguinaria repressione attuata dalle stesse truppe in camicia rossa. L’incontro di Teano e la cessione senza contropartite politiche dei territori conquistati a Vittorio Emanuele II, poi, deludono profondamente molti repubblicani e mazziniani che ora vedono il nuovo Stato come un’entità ostile e tirannica.

Il brigantaggio, infine, è un fenomeno endemico delle province meridionali, in particolar modo quelle montuose, dove è attestato senza significative soluzioni di continuità fin dai secoli dell’Alto medioevo. La debolezza del nuovo Stato, che ancora in molte province non riesce a sostituire il proprio personale a quello borbonico, e leggi che rendono le condizioni delle masse contadine ancora più dure (come la famigerata imposta sul macinato e la leva obbligatoria) non fanno che spingere un numero elevato di contadini impoveriti e renitenti alla leva verso le montagne, dove si uniscono alle bande già esistenti.

Il nuovo Regno d’Italia appare dunque spaccato in due: mentre le regioni settentrionali si avviano verso lo sviluppo di un moderno apparato di produzione capitalista, le regioni del sud vedono addirittura momentaneamente peggiorare le loro condizioni di vita. Il claudicante impianto industriale che il Regno delle Due Sicilie aveva visto nascere dopo il 1840 è spazzato via in poco tempo dopo l’unificazione: da un lato esso era prevalentemente sviluppato su capitali stranieri, ed i finanziatori esteri ritirano il proprio supporto una volta venute meno le regole protezionistiche sancite da Ferdinando II, dall’altro le manifatture napoletane (fino ad allora favorite da queste leggi) non possono reggere la concorrenza dei prodotti settentrionali ed esteri, da cui non sono minimamente difese in nome del credo puramente liberista dei governanti italiani del periodo.

 

La guerra per bande e la “legge Pica”

 

Già durante la battaglia del Volturno (svoltasi tra il settembre e l’ottobre del 1860) alcuni nobili della Terra di Lavoro, rimasti fedeli alla casa di Borbone, avevano armato e organizzato alcune bande irregolari di contadini che avevano combattuto contro Garibaldi al fianco dell’esercito siciliano. Dopo la presa di Gaeta e la fuga a Roma dei re di Napoli, “l’insorgenza” e la guerra per bande diventano l’unica arma del legittimismo per tentare di riprendere il regno perduto. Come già fatto in altri momenti della propria storia, la casa di Borbone non esita a prendere contatti con criminali perseguiti in anni precedenti dalla sua stessa giustizia per tentare di recuperare i propri domini; a essi si aggiungono volontari legittimisti (non solo napoletani ma anche francesi e spagnoli) e qualche repubblicano o democratico rimasto deluso dalle modalità dell’annessione “italiana” e che spera di dare un’altra opportunità alla rivoluzione riprendendo le armi.

Praticamente tutte le province del regno (ed in particolare Calabria, Abruzzo, Molise, Campania e Basilicata) diventano lo scenario di una guerriglia sanguinosissima che vede contrapposto l’esercito regio (composto principalmente bersaglieri e guardie civiche) a bande di irregolari.

Queste ultime, guidate da briganti come Carmine Crocco Giuseppe o Nicola Summa detto Ninco Nanco combattono nel nome della monarchia assoluta di Francesco II ma, con questo pretesto, si rendono spesso protagonisti di furti e razzie che non hanno nulla di politico contro la classe dei “galantuomini” (cioè la borghesia di villaggio e i proprietari terrieri), che è oggetto di violenze e grassazioni sulla base di una sua adesione alla causa sabauda più presunta che reale.

Le forze italiane, d’altro canto, a causa del peggiorare delle condizioni di vita delle masse agrarie si trovano a fronteggiare la guerriglia di bande sempre più numerose, ben armate (grazie ai finanziamenti che giungono dai Borbone e dall’Internazionale legittimista) e con una conoscenza del territorio molto superiore. Questo fa sì che l’esercito regio subisca un numero considerevole di perdite e che il nervosismo degli alti comandi si traduca quindi in una politica di ritorsioni che, molto spesso, non fa differenza tra briganti e semplici contadini, donne o minori. Interi villaggi sono interamente distrutti e gran parte dei loro abitanti giustiziati senza processo: molti ufficiali italiani, oltretutto, non fanno nulla per nascondere il loro odio verso le plebi meridionali e si rendono protagonisti di politiche assolutamente comparabili a quelle degli eserciti europei impegnati, negli stessi anni, nelle guerre di conquista del continente africano.

Questo mix di jacquerie contadina 2, mentalità coloniale e questione sociale rendono la guerra al brigantaggio estremamente sanguinosa, con un pesante bilancio di vittime civili tanto da parte “borbonica” che da parte unitaria. È bene inoltre precisare che, nonostante una certa pubblicistica abbia voluto rappresentare le truppe italiane come “piemontesi” e “occupanti”, la maggior parte dei caduti del regio esercito sono in realtà meridionali: ex soldati borbonici passati automaticamente sotto le nuove bandiere o neo-sudditi arruolatisi nella guardia civica.

Nell’agosto 1863, su proposta del deputato abruzzese Giuseppe Pica, il governo Minghetti vara una legge anti-brigantaggio che costituisce una deroga alle garanzie riconosciute a ogni cittadino in materia di eguaglianza dei diritti: la legge istituisce una serie di “punizioni collettive” per reati individuali, per cui sono colpiti i parenti o addirittura i semplici concittadini di briganti e renitenti alla leva, mentre per i villaggi viene ufficializzato il diritto di rappresaglia. Chiunque sia preso con le armi in pugno, per qualsiasi ragione, è fucilato sul posto senza processo. I corpi dei condannati, infine, sono spesso lasciati sul posto come monito e, visto il contemporaneo diffondersi della fotografia, le immagini dei cadaveri sono diffuse tra la popolazione.

Queste misure draconiane 3, evidentemente contrarie non solo allo Statuto Albertino ma alla stessa natura “liberale” con cui il Regno di Sardegna si era proposto come realizzatore dell’ideale risorgimentale, riescono tuttavia a debellare in circa cinque anni il brigantaggio, complice anche la fine dei finanziamenti provenienti dalla corte borbonica e l’accettazione, da parte di tutte le potenze europee, del nuovo Stato italiano. In conclusione, è storiograficamente scorretto, oggi, analizzare il fenomeno del brigantaggio con lo stesso punto di vista degli ufficiali italiani, considerandolo cioè un fenomeno meramente criminale e sottacendone le profonde implicazioni politiche e sociali, poiché proprio il rifiuto e l’incapacità da parte delle élites (anche e soprattutto meridionali) di farsi carico di questi problemi avrebbero caratterizzato i decenni successivi e, in una certa misura, anche l’attuale natura dei problemi del sud del paese.

D’altro canto, tuttavia, è scorretto anche l’approccio di coloro che, riprendendo il punto di vista del conservatorismo cattolico e del legittimismo filoborbonico, descrivono i briganti come “partigiani della nazione napoletana” - come se questa si identificasse interamente con la causa borbonica - sottacendone gli aspetti di criminalità comune.

1 I fatti di Bronte vengono rievocati anche nella novella Libertà dello scrittore verista Giovanni Verga.

2 Con il termine francese jacquerie si intende una rivolta spontanea e violenta, tipicamente contadina, contro il potere costituito e spesso priva di orientamento o guida politica.

3 Il termine “draconiano”, indicante un provvedimento di legge particolarmente spietato e severe e non commisurato alla gravità del crimine, rimanda al legislatore ateniese Dracone, che nel VII secolo a.C. mise per primo per iscritto il codice penale.