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"La mia sera" di Pascoli: analisi e commento

Parafrasi Commento

Introduzione

La mia sera, originariamente composta nel 1900, confluisce poi nei Canti di Castelvecchio, pubblicati inizialmente nel 1903 (anche se le successive edizioni proseguono - un po’ come era già successo per Myricae, l’altra grande raccolta pascoliana - con aggiunte fino alle versioni postume del 1912 e del 1914). La poesia, in cui molti critici hanno visto evidenti analogie con La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi, descrive la pace serale di un giorno tormentato da un selvaggio temporale; in questa situazione meteorologica il poeta vede strette connessioni con la sua vita familiare, funestata dal misterioso omicidio del padre quando egli era ancora fanciullo.

 

Analisi

Se ad una prima lettura il testo de La mia sera sembra descrivere semplicemente la fine di una giornata tempestosa, ad una lettura più attenta si nota che la poesia è costruita in maniera assai attenta e studiata per sviluppare una serie di punti (l’inquietudine misteriosa dalla Natura, i meccanismi dell’inconscio attivati dai simboli, la capacità di guardare il mondo da una prospettiva straniata e straniante) che possono essere ricondotti alla “poetica del fanciullino” (il testo, intitolato Pensieri sull’arte poetica, è edito sul «Marzocco» tre anni prima de La mia sera, nel 1897).

Innanzitutto va notata una precisa divisione della materia e degli argomenti della poesia, sia a livello delle singole strofe sia al livello macrostrutturale dell’intero testo. Ogni strofa è insomma divisa quasi a metà a seconda del tema che lì viene svolto: il confronto tra la furia della tempesta e la “pace” (v. 8) della sera (strofe 1 e 2) oppure tra la situazione esterna e il proprio dramma personale (strofe 3 e 4); fa eccezione solo la strofa conclusiva (vv. 33-40), che conclude il discorso mettendo in rilievo i ricordi infantili del poeta. In una prospettiva più ampia, la suddivisione in due parti è altrettanto precisa: i primi venti versi presentano la situazione meteorologica, mentre i restanti (vv. 21-40) presentano le analogie simboliche tra questa e lo “stanco dolore” (v. 21) che deriva al poeta dalla “nube [...] più nera” (v. 22) della perdita del padre (un lutto incurabile in cui ora pare aprirsi una possibile prospettiva di felicità).

Anche dal punto di vista metrico e fonosimbolico si rivela uno dei testi pascoliani più importanti: i novenari e i senari sono fitti di richiami fonici alla pioggia che batte e scroscia (si pensi, soprattutto nelle prime due stanze, alla frequenza di - p -, - l - ed - r - come ai vv. 5-6: “Le tremule foglie dei pioppi | trasccore una gioia leggiera”), mentre l’antitesi tra l’imperversare del temporale e il momento sereno della sera è riprodotto sulla pagina con l’alternanza di - u - (tipica vocale dal suono chiuso e cupo), - i - ed - a - (vocali che invece sono “chiare” ed aperte).

Tra le figure retoriche del testo (alcune delle quali di uso tipicamente pascoliano) troviamo naturalmente onomatopee (v. 4: “c’è un breve gre gre di ranelle”; v. 33: “Don… Don… E mi dicono, Dormi!”), che si inseriscono perfettamente nella tessitura fonica del testo, allitterazioni ed anafore (anche a lunga distanza, come per la ripresa del termine “sera” in chiusura di ogni strofe) che sottolineano, insieme con lo schema rimico, i termini-chiave della poesie, e li propagano come in un “effetto eco”. Non mancano metafore (v. 22: “La nube nel giorno più nera”), metonimie (vv. 29-30: “La parte, sì piccola, i nidi | nel giorno non l’ebbero intera”, in cui i “nidi” indicano ciò che vi risiede dentro, ovvero i piccoli della rondine) e sinestesie (v. 36: “[...] voci di tenebra azzurra”).

 

Simbolismo ed autobiografismo in Pascoli

La mia sera è allora uno dei vertici dello sperimentalismo maturo di Giovanni Pascoli, nel quale confluiscono elementi svariati del Naturalismo, del Simbolismo e del Decadentismo: si tratterà però sempre di uno “sperimentalismo nella tradizione”, che saprà cioè innovare sempre restando all’interno dei confini della cultura letteraria ereditata dagli autori precedenti (Leopardi e Carducci su tutti), rifiutando quella che sarà la grande innovazione della poesia novecentesca, ovvero il verso libero. Si pensi così alle particolari strutture metrico-strofiche di Pascoli, all’uso dell’onomatopea oppure alla mescolanza di lingue “alte” ed ufficiali (l’italiano, o il latino virgiliano posto ad esergo di ogni raccolta poetica) con lessici tecnici e specialistici 1 o dialettali, fino all’inglese di Italy. Questo progressivo allontanamento dalla norma grammaticale è dovuto sia all’influenza su Pascoli del Simbolismo e del Decadentismo europei (di cui, insieme con Gabriele D’Annunzio, egli è il maggiore interprete italiano) sia ad una specifica concezione della poesia, ben messa in luce da Stefano Giovanardi:

Per il Pascoli myriceo la poesia non è un linguaggio «settoriale», ma una lingua: non opera cioè sul terreno dell’utilizzazione a fini speciali di un codice comunicativo preesistente, bensì sul quello della fondazione di un codice affatto diverso da quello d’uso, dotato di sue proprie caratteristiche percettive ed espressive, di sue proprie regole, di suoi propri significati. 2

Ed è questa concezione della poesia come “codice affatto diverso” che sa penetrare là dove gli strumenti ordinari non giungono a spiegare il meccanismo regressivo che contraddistingue l’ultima strofa, dove emerge più prepotentemente il tema autobiografico de La mia sera. Il suono delle campane, mentre il poeta si sta addormentando come un “fanciullo” (vv. 37-38: “Mi sembrano canti di culla, | che fanno ch’io torni com’era...”), introduce la dimensione dell’inconscio 3, dove emerge il ricordo della madre, morta nel 1868, un solo anno dopo l’assassinio di Ruggero Pascoli (v. 39: “sentivo mia madre… poi nulla…”). E questa conclusione ha una spiegazione autobiografica; Castelvecchio di Barga (dove i Canti sono ambientati) è quel rifugio sicuro presso Lucca dove il poeta vive dal 1895 con l’amata sorella Mariù, nel tentativo di ricomporre il “nido” violato dell’infanzia. A ciò si aggiunga che gli stessi Canti di Castelvecchio sono dedicati alla memoria della madre, all’insegna di un rapporto inscindibile tra vita e morte, come si spiega nella Prefazione:

E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.

1 Si ricordino a tal proposito le ottime conoscenze di botanica di Pascoli, che, in un suo celebre intervento, lo portarono a contestare l’irrealisticità di un verso del leopardiano Sabato del villaggio.

2 S. Giovanardi, Myricae di Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, L’età contemporanea, Le opere 1870-1900, Torino, Einaudi, 2007, p. 723. Queste osservazioni su Myricae si adattano bene anche a La mia sera.

3 Si tratta solo di una coincidenza, ma mentre Pascoli scrive La mia sera, Sigmund Freud pubblica la sua Interpretazione dei sogni (1899).