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Giacomo Leopardi, "La quiete dopo la tempesta": analisi e commento del testo

La quiete dopo la tempesta e i Canti del 1828-1830

Se i Canti leopardiani del 1828-1830 sanciscono, dopo la prima esperienza degli “idilli” e la fondamentale parentesi delle Operette morali, il ritorno dell’autore alla parola poetica, anche la Quiete dopo la tempesta (pur con sue caratteristiche particolari) si inserisce in questa nuova stagione poetica. La dimensione memoriale, forse favorita anche dal felice soggiorno pisano tra 1827 e 1828, caratterizza questa fase, come significativamente indica A Silvia dell’aprile 1828; a ciò s’aggiunge - a segno della maturità della poesia leopardiana - una nuova, più consapevole ed amara, visione del mondo. La fase delle Operette, con pietre miliari quali il Dialogo della Natura e di un Islandese o quello tra Plotino e Porfirio - è stata infatti funzionale ad acquisire la certezza che le passioni dell’uomo sono intrinsecamente ingannevoli, non altro che vaghe illusione che mascherano quell’arida realtà del mondo da accettare con lucida e pessimistica razionalità, pur nella loro indiscutibile “utilità” per la nostra vita di ogni giorno 1 (come il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia saprà sintetizzare in modo magistrale).

In tal senso, spicca in tutti i Canti la consapevolezza del fuggire del tempo (e con lui, delle illusioni e delle possibilità di felicità dell’età giovanile) e del flusso ininterrotto delle cose, che rendono il ricordo del tempo passato solo un'ulteriore ferita “acerba”, come sintetizzano gli ultimi versi (vv. 168-173) de Le ricordanze:

[...] Nerina or più non gode; i campi,
l’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d’ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

Come in precedenza, l’autobiografismo della poesia di Leopardi è sempre un punto di partenza, su cui opera la stilizzazione letteraria (ovvero la trasposizione del proprio “io” secondo un modello di poetica e stile) e, in questa fase, il nuovo orizzonte ideologico dell’autore. Le figure della memoria personale (la Silvia del componimento omonimo, la Nerina citata nelle Ricordanze, le scene campestri della Quiete o del Sabato del villaggio o la “torre antica” recanatese che fa da scenografia all’incipit del Passero solitario) non sono più motivi di aristocratica (e titanica) protesta contro la natura, ma si aprono a due atteggiamenti tipici del poeta-filosofo, che caratterizzano anche la Quiete dopo la tempesta: la compassione per sé o per chi sa di aver ormai perduto le illusioni di gioventù (affiancata dalla malinconica consapevolezza dell’immutabilità del proprio destino) e, tra le righe, il sarcasmo (o, in altre occasioni, una più velata ironia amara) verso chi ancora si intestardisce a sostenere la battaglia della “magnifiche sorti e progressive”, per citare un passo celebre della futura Ginestra (v. 51).

Poetica e temi della Quiete dopo la tempesta

La quiete dopo la tempesta si colloca allora, anche cronologicamente, ad uno snodo fondamentale della carriera poetica leopardiana; le stesse date di composizione (la terza settimana del settembre 1829) lo avvicina moltissimo al Sabato del villaggio, steso negli ultimi giorni di quel mese. L’altro importante rimando è tuttavia lo Zibaldone, e in particolare quei passi, datati attorno all’agosto 1822, in cui Leopardi riflette sulla cosiddetta “teoria del piacere”, stabilendo una precisa correlazione tra la cessazione del dolore e la sensazione di felicità, aggiungendo il corollario per cui un’esistenza (impossibile...) di soli piaceri e senza sofferenza sarebbe comunque una condanna, in quanto si tradurrebbe ben presto in infelicità, e cioè in “noia”. La forma della canzone libera, che qui alterna liberamente endecasillabi e settenari, si presta assai bene - come in tutti i “grandi idilli” - a coniugare confessione personale, ricordo autobiografico e riflessione sulle verità universali.

La prima strofe: il paesaggio

Questo passaggio dialettico è costante, e si articola nella progressione delle tre strofe del testo. La prima presenta il quadro, la scenografia dai toni idillici (uno scorcio di campagna che ritorna alla vita e al “sereno”, v. 4, dopo l’imperversare di un temporale) che è trasparente metafora di un’età gioiosa della vita, o della felicità di chi, come “l’artigiano” del v. 11 o “l’erbaiuol” deil v. 16, può dedicarsi alle proprie attività incurante dell’angoscia di esistere, o del fuggire delle illusioni. Sono versi che - lungi dal costituire un semplice e gratuito “quadretto” o “bozzetto” di piacevole contemplazione - sono funzionali ad unire tre dimension importantissime per comprendere il sistema poetico di Leopardi: la “riflessione”, il “sentimento” e l'“immaginazione” 2. L’effetto di piacevolezza e di serenità si traduce anche sul piano formale: la coordinazione dei periodi, prevalentemente per asindeto, trasmette un’impressione di vitalità, sostenuta dal ritmo di settenari ed endecasillabi e dalla rete di rime (“montagna - campagna”, vv. 5-6;  “lato - usato”, vv. 8-10; “sentiero-giornaliero”, vv. 17-18; “famiglia - ripiglia”, vv. 21-24), rime interne (“Passata - tornata”, vv. 1-3) o assonanze e rimandi sonori. Lo scenario si compone così sia di sensazioni visive (il “sereno” che “rompe da ponente”, la luce del sole che irradia la valle e fa splendere le acque del “fiume”, le case di campagna che s’aprono al ritorno del bel tempo ai vv. 19-22) e musicali-uditive, particolarmente evidenti in chiusura di strofe, con il “tintinnio di sonagli” del carretto del viandante (i vv. 21-24 insistono così sui suoni della - r - e del nesso - gl - , come in “terrazzi”, “famiglia”, “corrente”, “sonagli”, “carro”, “stride”, “ripiglia”).

Seconda strofe: la riflessione

La seconda strofe, che si apre su un verso costituito da una singola frase di constatazione della felicità altrui (“Si rallegra ogni core”, v. 25), ha da subito un ritmo più lento, che si adatta alla pausa interrogativa della voce poetica e corrisponde al passaggio tra osservazione e riflessione, e all’emersione del rapporto necessario - tipico della Quiete - tra sofferenza e piacere. Le domande retoriche, scandite dalla figura retorica del parallelismo, culminano in una sorta di “massima filosofica” (“Piacer figlio d’affanno”, v. 32) che sintetizza pienamente la visione del mondo del poeta, mentre gli ultimi versi (vv. 34-41) presentano una visione naturale catastrofica, nettamente all’opposto rispetto a quella pacifica e felice di apertura.

Terza strofe: le conclusioni

Dopo il paesaggio agreste e la riflessione sull’”affanno” dell’uomo, la terza strofe chiude il ragionamento leopardiano in chiave cupa e sarcastica: la Natura non è affatto benigna (“cortese”, v. 42) nei confronti dell’uomo, tanto che, in un’altra frase manifesto della Quiete, “uscir di pena è diletto fra noi” (vv. 45-46) e l’unica occasione di piacere è un dono assolutamente inaspettato e casuale (“mostro” o “miracolo”) per tutti noi. E la nota finale, contro la supposizione che l’umanità sia “cara agli eterni” (v. 51), apre già la strada al Ciclo di Aspasia (con, ad esempio, la tragica e disillusa impassibilità di A se stesso) e, più in là, alla pietas per i destini umani e il proposito di mutua solidarietà della Ginestra.

Bibliografia:

- G. Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 1993.
- E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990.

1 È assai sintomatico ed indicativo della dimensione di Leopardi nel quadro della riflessione poetico-filosofica dell’Ottocento europeo, il legame indicato dal filosofo Emanuele Severino tra questa visione del mondo, le riflessioni di Schopenhauer e, più avanti, quelle di Friedrich Nietzsche.

2 Sono termini che ricorrono in una pagina dello Zibaldone (21 ottobre 1821), in cui si spiega che tutti e tre (e i contrasti che nascono tra loro) sono utilissimi alla “ricerca delle verità, massime delle più grandi”.