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"Paradiso", Canto 1: riassunto

Parafrasi Commento

Introduzione

Nel primo canto paradisiaco, siamo, dal punto di vista cronologico, nel pomeriggio del 13 aprile del 1300. Dante all’inizio di questo canto si trova ancora nel Paradiso Terrestre vicino alla sorgente dei fiumi Leté ed Eunoé. In questo momento egli invoca Apollo (vv. 1-36), dio classico della poesia, e poi, vista Beatrice volgere lo sguardo verso il sole, segue il suo esempio, riuscendo anch’egli a fissare la luce (vv. 37-81). Riportando in seguito il suo sguardo sulla donna, egli si sente “trasumanar” (v. 70), e cioè superare la propria condizione umana di finitezza per salire verso il primo cielo del Paradiso. Beatrice, in un’atmosfera di pace e serenità, scioglie i dubbi di Dante in merito a ciò che gli sta accadendo.


Riassunto

I primi versi (vv. 1-36) del Canto I del Paradiso sono dedicati alla presentazione del contenuto di quest’ultima cantica della Divina Commedia, attraverso il proemio 1 e l’invocazione ad Apollo, costruite entrambe seguendo la tradizione della retorica classica: “Veramente quant’io del regno santo | ne la mia mente potei far tesoro, | sarà ora materia del mio canto” (vv. 10-12). Fin dai primi versi Dante manifesta la difficoltà di esprimere ciò che ha visto nel regno dei cieli; il tema dell’ineffabilità è centrale in tutta la cantica: “vidi cose che ridire | né sa né può chi di là sù discende” (vv. 5-6), e più avanti nel canto (vv. 70-71): “Trasumanar significar per verba | non si poria”. Dal v. 13 inizia l’invocazione al dio della poesia, Apollo - mentre nell’Inferno e Purgatorio Dante aveva invocato le Muse. Se il poeta mette in luce la decadenza dei suoi tempi (in cui ormai raramente o un poeta o un imperatore aspirano alla gloria, simboleggiata dalle foglie di alloro), qui Dante mostra pure la consapevolezza della grande impresa cui si sta accingendo come letterato (ai vv. 26-27 Dante allude chiaramente alla propria incoronazione poetica) e come credente. Ai vv. 34-36 ("Poca favilla gran fiamma seconda: | forse di retro a me con miglior voci | si pregherà perché Cirra risponda", e cioè: "Un gran incendio segue una piccola favilla: forse, dopo il mio tentativo, si chiederà in modo migliore che Apollo [Cirra, un passaggio del monte Parnaso] intervenga") egli infatti dichiara di esser il primo a confrontarsi con una materia così alta e gravosa, e che il suo esempio può valer come "favilla", come cioè fiamma che inviti altri poeti più degni a cantare la stessa tematica.


Concluso il proemio, inizia l’azione vera e propria del canto (vv. 37-81), l’ascesa al cielo di Dante e Beatrice. Con una perifrasi (vv. 37-42) il poeta descrive il sorgere del sole primaverile, che viene guardato direttamente da Beatrice, imitata poi da Dante, che riesce a fissare l’astro più di quanto riesca un essere umano, perché si trova nel Paradiso terrestre, dove “molto è licito là, che qui non lece | a le nostre virtù, mercé del loco | fatto per proprio de l’umana spece” (vv. 55-57; si intenda: "sono possibili molte cose nel Paradiso Terrestre, che non sono concesse in terra alle nostre umane facoltà, in virtù del luogo creato in maniera funzionale per la specie umana"). Improvvisamente a Dante sembra che la luce stia aumentando d’intensità e si sente “trasumanar”, come Glauco, che secondo un mito - riportato anche da Ovidio nel dodicesimo libro delle Metamorfosi - divenne un dio marino, dalle virtù profetiche, dopo aver mangiato un’erba magica (vv. 67-72); e così il poeta entra in Paradiso. Dante non riesce a spiegare a parole il suo ingresso nel regno dei cieli ed è costretto a ricorrere a un neologismo (“trasumanar”) e a usare una similitudine con una figura mitologica. La novità del suono del cielo e del lago di luce, in cui si trova ora il poeta, fanno sorgere in Dante personaggio il desiderio di sapere quale sia la loro origine, senza sapere ancora di trovarsi in Paradiso (vv. 82-84). Beatrice, che conosce i pensieri e i desideri del poeta, gli risponde: “Tu non se’ in terra, sì come tu credi; | ma folgore, fuggendo il proprio sito, | non corse come tu ch’ad esso riedi" (vv. 91-93: "Tu non ti trovi sulla Terra, come invece ti sembra; il fulmine, precipitando dalla sua naturale sede [il cerchio del fuoco] non ha mai corso così veloce come te adesso, che stai tornando al luogo dove sei destinato [e cioè il cielo, sede naturale delle anime umane]").


In seguito alla spiegazione della donna nascono nuovi dubbi in Dante, che si chiede infatti come abbia fatto il suo corpo a trascendere l’aria e il fuoco. Beatrice inizia una complessa spiegazione teologica, partendo dalle concezioni astronomiche aristotelico-tomistiche dell’epoca (vv. 94-142): tutte le cose sono create secondo un ordine armonioso, poiché generate da Dio, che è somma armonia. Secondo queste teorie esistono sette cieli, dominati da un astro, e gli ultimi due sono il cielo delle Stelle fisse e il primo mobile. Tutti i cieli si muovono perfettamente secondo un moto circolare, mentre l’unico luogo immobile è l’Empireo che circonda il Primo Mobile, che infonde agli altri cieli il movimento. L’uomo tende a questo luogo, ma, a causa di un uso errato del libero arbitrio, spesso si distoglie, attirato da beni materiali e corrompendosi, fino a cadere all’Inferno. Dante può salire in cielo dal momento che con il suo viaggio all’Inferno e la sua purificazione in Purgatorio si è liberato da ogni peccato e dalla sua natura terrena (che, in quanto tale, possiede l’istinto della forza di gravità). Infine, concluso il discorso, Beatrice rivolge nuovamente gli occhi al cielo.


Personaggi

Beatrice e il "Paradiso"

Beatrice, detta Bice, figlia di Folco Portinari dovrebbe essere il personaggio storico corrispondente alla Beatrice amata da Dante; nacque nel 1266 circa e morì nel 1290. Dante la cantò in ogni sua opera, conferendole volta per volta differenti valori. La troviamo nella Vita Nova come la donna amata che, in accordo con la poetica dello Stilnovo, costituiva un tramite diretto verso Dio, così che l'amore terreno (come sintetizzato benissimo nel celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare) si sublimi nell'esperienza trascendente, soprattutto attraverso il "saluto" salvifico e portatore di Grazia.

Successivamente alla morte di Beatrice, nella biografia dantesca c'è il periodo del traviamento esistenziale e filosofico (segnato anche dall'avvicinamento dell'autore alla Filosofia, come ricordato nel Convivio), che conduce Dante alle soglie della dannazione, rendendo necessario il viaggio nei tre regni ultraterreni. Beatrice nella Commedia è quindi citata per la prima volta nella prima cantica (Inferno, II, vv. 43-75, nel momento in cui Virgilio racconta a Dante di come una "donna beata e bella" discese dal Paradiso nel Limbo per chiedergli di salvare il poeta); il vero incontro con Beatrice avviene però nel Paradiso Terrestre, nel trentesimo canto del Purgatorio: Beatrice, prima di diventare guida del poeta nel Paradiso, lo rimprovera aspramente per i peccati commessi, e lo invita a bagnarsi nelle acque del Leté (il fiume mitologico che toglie il ricordo delle colpe commese) e poi dell’Eunoé, fiume che rafforza invece la coscienza del bene commesso.

Del resto, Beatrice nel Paradiso sovrappone alle proprie fattezze umane una ben più importante funzione: quella di essere allegoria della Teologia, costituendo così una risorsa irrinunciabile per arrivare alla conoscenza di Dio. Nel sistema di pensiero medievale, in cui Dante è immerso, la Ragione (emblematizzata dal "dolce duca" Virgilio) non può bastare da sola a compiere l'esperienza più alta possibile per un credente, ma deve lasciare spazio alla fede. In tal senso, nei canti finali del poema Dante viene guidato da una terza figura, il mistico San Bernardo.

1 Il termine “proemio” deriva dal latino proœmium e dal greco προοίμιον (voce composta da πρό “avanti” e οἶμος “strada”), a significare quindi la parte introduttiva e di apertura di un’opera o di un testo letterario. La terza cantica della Divina Commedia si apre con un lungo proemio di ben trentasei versi, molto più lungo cioè rispetto a quelli delle cantiche precedenti (nel secondo canto dell’Inferno e nel primo del Purgatorio avevamo rispettivamente tre e dodici versi). L’ampiezza è dovuta anche alla materia più ardua e sottile, che richiede quindi un maggior sforzo poetico e, secondo quanto dice il poeta stesso, sarà il suo più alto sforzo intellettuale. Il proemio è quindi costituito da dodici terzine, di cui le prime quattro sono dedicate all’argomento, mentre le ultime tre presentano l’invocazione.