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"Paradiso", Canto 6: analisi e commento

Parafrasi Commento

Introduzione

Dante e Beatrice, nel sesto canto del Paradiso, si trovano nel secondo cielo, ovvero nel cielo di Mercurio, in cui si sono presenti gli spiriti operanti per la gloria terrena; siamo, dal punto di vista cronologico nel pomeriggio del 13 aprile del 1300. Il poeta in questo canto segue il lungo discorso di Giustiniano che occupa tutto il canto (142 versi): l'imperatore romano, figura simbolica della Legge terrena che risponde ai principi della Legge eterna di Dio e asseconda il disegno provvidenziale del Creatore, tratta la questione della funzione dell'Impero e della sua storia universale.

 

 

Riassunto

Il canto VI di ogni cantica è dedicato ad un argomento politico: nell’Inferno, con la figura di Ciacco, Dante aveva affrontato la corruzione dilagante a Firenze e la divisione in fazioni; nel Purgatorio, allargando il campo di indagine e di critica, il poeta si lamentava della situazione dell'Italia, ormai in balia di potenze straniere e lacerata da dannosissime lotte intestine; nel Paradiso, infine, Dante tratta dell’Impero, facendo proprie le riflessioni di Giustiniano.

Nei primi versi (vv- 1-27) l’imperatore inizia il discorso raccontando la propria vita: l’ascesa al potere imperiale, duecento anni dopo Costantino; la conversione al Cristianesimo; la stesura del Corpus Iuris Civilis (ovvero, la fondamentale sistemazione normativa e giuridica del diritto romano voluta da Giustiniano, e suddivisa in Institutiones, Digesta, Codex e Novellae Constitutiones); il consolidamento politico e militare dell’Impero Romano d'Oriente, grazie al suo comandante, Belisario. Giustiniano inizia poi a ripercorrere la storia dell’Impero, e questa parte occupa un’ampia parte del canto, vv. 28-96. L’impero rimase per trecento anni presso Albalonga, città fondata dal figlio di Enea (“Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora | per trecento anni e oltre, infino al fine | che i tre a’ tre pugnar per lui ancora” vv. 37-39), poi passò a Roma, dove “giovanetti trïunfaro | Scipïone e Pompeo” (vv. 52-53). Ricorda il periodo delle guerre civili, la definitiva sconfitta di Antonio e Cleopatra e il trionfo di Augusto, che riportò la pace. Sotto Tiberio morì Cristo, la cui morte - secondo la visione tipicamente provvidenzialistica sottesa alla Commedia - viene per così dire "vendicata", nell'ottica dell'imperatore, dalla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito nel 70 d.C. (“con Tito a far vendetta corse | de la vendetta del peccato antico”, vv. 92-93). Infine l’aquila imperiale passò a Carlo Magno, considerato da Dante come continuatore dell’impero, che difese la Chiesa dall’arrivo dei Longobardi (“E quando il dente longobardo morse | la Santa Chiesa, sotto le sue ali | Carlo Magno, vincendo, la soccorse”, vv. 94-96). Dante, nei versi successivi (vv. 97-111), attraverso le parole dell’imperatore, si scaglia contro i Guelfi, sostenitori del papa e della monarchia francese, che vogliono sostituire l’aquila delle insegne con il giglio giallo, simbolo dei re francesi, e contro i Ghibellini, che utilizzano l’aquila imperiale come simbolo di fazione, riducendone così l’importanza come punto di riferimento universale.

Negli ultimi versi (vv. 112-142) l’imperatore mostra a Dante le anime del cielo di Mercurio, tra le quali incontra quella di Romeo di Villanova, che fu consigliere del conte di Provenza, Raimondo Berengario V, e che, in seguito ad una calunnia di tradimento, si allontanò dalla corte e visse in povertà. Questa figura, citata in chiusura del canto, è molto importante per Dante, anch'egli un exul immeritus, dopo il forzato allontanamento da Firenze: Romeo diventa infatti una sorta di "se stesso" in cui specchiarsi, e attraverso cui ritornare sui tormenti della pena ingiusta cui il poeta si sente condannato. Gli ultimi quattro versi (vv. 139-142), chiosano infatti: "indi partissi povero e vetusto | e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe | mendicando sua vita a frusto a frusto, | assai lo loda, e più lo loderebbe"; se tutti quelli che già lodano Romeo conoscessero le angherie del mendicare il pane pezzo per pezzo, lo ammirerebbero ancor di più. Sintomatico del resto che tale riflessione chiuda il sesto canto del Paradiso, dedicato alla "politica" nella sua accezione più ampia e somma: nella visione finalistica della storia di Dante, l'Impero ha la funzione provvidenziale di unificare il regno terrestre degli uomini (assicurando loro pace e giustizia, ad esempio con l'istituzione delle leggi del Corpus Iuris giustinianeo) in attesa di quello celeste venturo.

 

Tematiche e personaggi

Giustiniano e l'aquila imperiale

Giustiniano (482-565) fu Imperatore Romano d’Oriente dal 527 al 565. Adottato dallo zio Giustino, noto generale che nel 518 d.C. divenne imperatore, Giustiniano venne dapprimo associato al potere e poi fu proclamato imperatore: il suo lungo regno è ricordato come uno dei più felici nel passaggio dalla storia classica a quella alto-medievale, sia per l'attività legislativa (confluita appunto nel Corpus Iuris Civilis) che per quella militare e politica, grazie anche all'abilità del suo generale Belisario. Assai signifitcativo (soprattutto agli occhi di Dante...) il tentativo di Giustiniano di restaurare l'unità antica dell'Impero romano, riunendo Oriente ed Occidente, Bisanzio e Roma: la "guerra gotica" (535-553) vide l'invasione dell'Italia da parte delle truppe imperiali ma, in circa ven'anni di ostilità, non raggiunse risultati stabili nel tempo (nel 568, infatti, i Longobardi invasero la penisola ponendo fine al sogno di una nuova unità imperiale).

Nel sesto canto del Paradiso, è l'aquila imperiale a costituire il centro simbolico del ragionamento dell'imperatore. L’aquila era il simbolo, inizialmente attribuito a Giove Capitolino (protettore del Campidoglio), che si impose per identificare l’esercito romano e le sue legioni sin dal periodo repubblicano: Caio Mario (157-86 a.C.) lo introdusse come segno delle truppe durante il suo consolato nel 104 a.C., sostituendo precedenti simboli anilmali (il lupo, il cavallo, il cinghiale o addirittura un minotauro, secondo Tito Livio nel suo Ab urbe condita). L'aquila, nella prospettiva di Dante, è il simbolo della storia millenaria dell'Impero e della sua insostituibile funzione ordinatrice; questa convizione si riflette anche nel pensiero politico dantesco, sviluppato principalmente nel trattato Monarchia.

Qui Dante si fa portavoce della teoria dei due Soli, una concezione politica medievale, propria della Scolastica, in cui si postulava la presenza di due poteri coesistenti che avevano obiettivi differenti: il potere imperiale doveva curare l’aspetto politico del mondo terreno e della vita civile dei sudditi, mentre il potere papale si doveva preoccupare dell’ambito spirituale e della salvezza delle anime. Questa teoria si coniugava bene con la posizione "bianca" del guelfo Dante, che riconosceva l'autorità papale ma individuava in un Impero forte e saldo il miglior elemento per controbilanciare le spinte temporalizzanti del Papato del suo tempo.