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Pavese, "La luna e i falò": riassunto e commento

Introduzione

 

La luna e i falò è un romanzo di Cesare Pavese scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950, pochi mesi prima del suicidio dello scrittore. Il libro è considerato l’approdo definitivo della poetica di Pavese, lungo una linea che unisce le sue opere precedenti (come Paesi tuoi, Il carcere, La bella estate, i Dialoghi con Leucò e La casa in collina) e ne traspone i temi in una prospettiva simbolica che unisce i ricordi d’infanzia a Santo Stefano Belbo, le ragioni dell’antifascismo, la poetica del mito elaborata nel corso di quegli anni. La vicenda è raccontata in prima persona dal protagonista, detto Anguilla.

 

Riassunto

 

La vicenda è ambientata subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale; il quarantenne Anguilla - il protagonista di cui conosciamo solo questo soprannome, rimastogli dai tempi dell’adolescenza - torna nelle Langhe, sua terra d’origine, dopo essere emigrato in America da molti anni. Anguilla è un orfano: adottato da una famiglia di contadini che abita alla cascina della Gaminella, presso Santo Stefano Belbo, a tredici anni, morto il padre adottivo, Anguilla si trasferisce per lavorare alla cascina della Mora, dove stringe amicizia con Silvia, Irene e la bella Santina, figlie del padrone. Il protagonista entra poi in contatto con ambienti antifascisti a Genova, in occasione del servizio militare e, anche per sfuggire al regime, emigra negli Stati Uniti, dove accumula una piccola fortuna. La nostalgia della terra dell’infanzia e il ricordo del mondo delle campagne lo spingono però a tornare a Santo Stefano Belbo.

Il ritorno è però amaro: Anguilla scopre che il mondo della sua memoria non esiste più. Alla Gaminella, il podere dove è cresciuto, ora vive la famiglia di Valino, un mezzadro violento che sfoga sulla famiglia le sofferenze per una vita di povertà e sofferenze. Qui Anguilla stringe amicizia con Cinto, il figlio zoppo di Valino, con cui il protagonista, desiderando essere una sorta di padre per lui, trascorre molto tempo nelle campagne delle Langhe, rievocando e rivivendo gli anni della propria infanzia ed adolescenza. Il processo del ricordo è attivato anche da Nuto, un falegname che al tempo è stato la figura paterna di riferimento per Anguilla; Nuto, ex partigiano, racconta ad Anguilla tutti gli orrori della guerra civile contro i nazifascisti, un evento che ha cambiato radicalmente l’esistenza di tutti.

La tragedia incombe: quando la situazione economica del podere precipita, Valino impazzisce e in un raptus di follia massacra tutta la famiglia, incendia la Gaminella e si impicca. Si salva solo Cinto, che riesce a fuggire e a ripararsi da Anguilla. Anguilla scopre anche un’altra atroce verità sulle tre sorelle della Mora: Irene ha sposato un uomo violento e Silvia è morta di parto dopo una relazione adulterina. Santina, la ragazza di cui Anguilla è stato segretamente innamorato in gioventù ma che non ha mai potuto avvicinare a causa della sua inferiorità sociale, è morta anch’essa: dopo essere sta amante di molti fascisti, si è infiltrata tra le fila dei partigiani come spia. Scoperta, Santina è stata giustiziata e il suo corpo dato alle fiamme.

Prima di abbandonare definitivamente Santo Stefano Belbo, Anguilla affida Cinto a Nuto.

 

Analisi

 

La luna e i falo è suddiviso in trentadue brevi capitoletti che descrivono un episodio, sviluppano un ricordo malinconico di Anguilla o sviluppano una breve scena narrativa; questa struttura sottolinea da un lato l’importanza del ruolo della memoria (Anguilla, orfano e “sradicato”, torna nelle Langhe per ritrovarvi un’identità non trovata oltreoceano) e dall’altro la trasfigurazione del ricordo stesso in un simbolo, che, nella poetica di Pavese, sono inattivi e inerti finché noi non li riconosciamo. Quando questo accade, i simboli si attivano e, a partire dal nostro ricordo, diventano un potente strumento di lettura e interpretazione della realtà.

Lungo questa linea espressiva, è evidente la continuità tra La luna e i falò e tutta la produzione pavesiana, comprese le poesie di Lavorare stanca, la raccolta di versi pubblicata nel 1936. Se si pensa ad esempio a Mari del sud si nota che anche lì è presente la figura di un esule che, dopo anni, torna nelle terre d’origine. Nella poesia si tratta del cugino del protagonista, mentre ne La luna e i falò è Anguilla stesso a raccontare il proprio ritorno a casa sulla scia dell’evocazione dei simboli dell’infanzia. Il romanzo del 1950 diventa così per Pavese la chiusura di un ciclo personale e collettivo, una sorta di epopea che unisce il proprio mondo simbolico soggettivo con gli eventi storici drammatici dell’ultimo decennio. Come scrive Pavese stesso in una lettera, presentando l’idea del romanzo:

Io sono come pazzo perché ho avuta una grande intuizione - quasi una mirabile visione (naturalmente di stalle, sudore, contadinotti, verderame e letame, ecc.) su cui dovrei costruire una modesta Divina Commedia 1

Il titolo stesso dell’opera, allusivo ed evocativo, sarebbe poi stato suggerito all’autore (com’egli stesso ammette ne Il mestiere di vivere) dai versi di una sua poesia, il Dio-caprone 2, che compare appunto in Lavorare stanca. In tal senso, La luna e i falò è davvero un’opera riassuntiva, che ricompone l’esperienza umana ed esistenziale di Pavese dagli anni del confino a Brancaleone Calabro agli anni della guerra e del “disimpegno” dalla Resistenza che tormenterà il poeta per molto tempo. La scissione tra intellettuale e realtà, avvertita sin da Il carcere e poi espressa ne La casa in collina, e l’attrazione per il mondo mitico ed ancestrale delle campagne (si pensi a Paesi tuoi) si fondono in un “poema-canzoniere in prosa” 3 che diventa un pellegrinaggio nei luoghi dell’infanzia a forte caratterizzazione autobiografica. Ma il ritorno diventa un confronto inevitabile con i cambiamenti subiti dalla realtà:

Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parte del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati. la macchia di noccioli sparita, ridotta a una stoppia di meliga [...] Non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire che era tutto finito [...] mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.

Anguilla si interroga così sulla sua condizione di orfano e sulle sue origini: ciò che la sua riflessione evidenzia è l’assenza di un luogo natale a cui sentirsi affettivamente legato:

Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere” [...] chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.

Il desiderio irrealizzabile di ritorno alle origini è ben riassunto in un ragionamento di Anguilla:

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

Pavese-Anguilla scopre però che i simboli e i ricordi personali sono stati cancellati dalla Storia e dalla guerra: ne è prova evidente il falò, che da rito ancestrale e propiziatorio per la fertilità dei campi diventa strumento di morte e distruzione, sia nel caso della follia di Valino sia in quello dell’esecuzione di Santina. Come spiega il critico Stefano Giovanardi:

Ma la ricerca delle radici è pur sempre quella di un “bastardo” del tutto ignaro di chi siano i suoi genitori e del suo real luogo di nascita: una ricerca dunque per definizione delusiva, che non riesce mai a eliminare completamente un genetico spaesamento. La memoria stessa, solerte nel recuperare simbolicamente i “miti” infantili, non sa comunque restituire la pienezza esistenziale di cui quei miti si alimentavano: il presente è troppo oppressivo, troppo fresca e ancora urgente la minaccia della storia, perché ci si possa trovare intatti 4.

In questo senso, acquista ancor più senso la citazione che Pavese sceglie per il proprio ultimo libro: alla dedica all’attrice americana Constance Dowling, ultimo amore dello scrittore, segue un passo del Re Lear (atto 5, scena 2) di Shakespeare: “Ripeness is all”, ovvero: “Maturare è tutto”.

1 Lettera a Adolfo ed Eugenia Rauta, 17 luglio 1949, in C. Pavese, Lettere 1926-1950, tomo II, Torino, Einaudi, 1968, p. 659.

2 Il Dio-caprone, vv. 34-38: “Vanno in giro di giorno e di notte e non hanno paura | di zappare anche sotto la luna o di accendere un fuoco | di gramigne nel buio. Per questo la terra. | è così bella verde e, zappata, ha il colore, | sotto l’alba, dei volti bruciati”.

3 S. Giovanardi, “La luna e i falò” di Cesare Pavese, in Letteratura italiana. Le Opere, a cura di A. Asor Rosa, Il secondo Novecento. Le opere 1938-1961, Torino, Einaudi, 2007, p. 364.

4 Ivi, p. 366.