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Lo Statuto Albertino: riassunto

Introduzione: lo Statuto Albertino nel panorama costituzionale dell’Europa ottocentesca 

Lo Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia, promulgato il 4 marzo 1848, ha costituito la base per la vita politica del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, rimanendo in vigore (seppure solo formalmente) fino al 1946, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sebbene sia, dunque, una carta costituzionale estremamente longeva, è bene tener presente che la struttura dello Stato dell’Italia postunitaria, già profondamente mutata rispetto a quella progettata da Carlo Alberto nel 1848, viene completamente stravolta dalla dittatura fascista, senza che per questo il regime senta il bisogno di abrogarla. 

L’unica superstite tra le costituzioni italiane del 1848 

Tutta la stagione rivoluzionaria del 1848, sia in Italia sia in Europa, aveva avuto come motivo propulsore l’instaurazione di regimi rappresentativi e il nemico comune dei liberali e dei democratici, dalla Francia, all’Ungheria passando per gli Stati italiani, era stato l’assolutismo monarchico, appena “restaurato” dal Congresso di Vienna. Nella penisola, i sovrani (più o meno recalcitranti) erano stati indotti a concedere costituzioni in Sicilia, a Napoli, in Toscana e in Piemonte. Perfino il Papa Pio IX aveva dispensato uno “Statuto fondamentale”; mentre a Venezia e nella stessa Roma i troni erano stati rovesciati per lasciare il posto a delle repubbliche con costituzioni democratiche

L’ondata rivoluzionaria si era tuttavia conclusa con una serie di fallimenti ed i vari sovrani, una volta rientrati in possesso dei pieni poteri, si erano affrettati a revocare gli statuti concessi mentre le due repubbliche, quella veneziana e quella romana, erano crollate sotto la spinta deglieserciti inviati dalla Francia e dall’Austria per restaurare l’ordine. L’unica eccezione in un simile panorama è il Regno di Sardegna; pur uscendo pesantemente sconfitto dalla guerra con l’Austria, il Piemonte riesce ad ottenere che tra le clausole della pace non ci sia la rinuncia al regime costituzionale e, sebbene Carlo Alberto abdichi al trono dopo la sconfitta di Novara, suo figlio Vittorio Emanuele esercita il potere congiuntamente al parlamento. Dal punto di vista di Casa Savoia, se la rinuncia al potere assoluto potrebbe sembrare a prima vista un sintomo di debolezza politica nei confronti delle forze “rivoluzionarie”, nel medio periodo il mantenimento della costituzione si rivela una scelta molto lungimirante. Torino e Genova, infatti, grazie alle libertà concesse dallo Statuto, diventano il punto d’incontro di tutti i politici e gli intellettuali liberali che, dopo la fine dell’esperienza quarantottesca, erano dovuti andare in esilio, lasciando le rispettive patrie. Il Piemonte, che già ha affrontato direttamente l’Austria sui campi di battaglia della Prima guerra di indipendenza, grazie a questa politica di accoglienza viene identificato dal mondo liberale italiano (e soprattutto dalla sua parte moderata) come lo Stato più avanzato dal punto di vista politico. Da questo punto di vista, allora, l’unità italiana si delinea come un processo da costruirsi intorno a Casa Savoia, che viene quindi favorita nella sua espansione territoriale. 

La struttura del Regno con lo Statuto Albertino 

Sotto il profilo della gerarchia delle fonti normativelo Statuto Albertino non si configura come una vera e propria costituzione, poiché ha lo stesso rango delle leggi ordinarie e non si pone al di sopra di esse. Questo dettaglio è fondamentale perché, teoricamente, per modificarlo (o addirittura abrogarlo) non sarebbe servito un processo specifico e particolari maggioranze parlamentari (come accade per le carte costituzionali contemporanee) ma un semplice atto del sovrano. In pratica, tuttavia, lo statuto è promulgato come “legge fondamentale e perpetua della monarchia”, e dunque il sovrano è legato da un impegno politico, se non giuridico, a garantirne il mantenimento. Al momento di salire al trono, inoltre, il re giura “di osservare lealmente lo Statuto”. 

Come molte carte ottocentesche, si tratta di una costituzione “breve”: contiene cioè un numero ristretto di principi fondamentali, che riguardano quasi esclusivamente la libertà del cittadino dallo Stato e dalla sua azione, e le regole basilari della struttura statale, ma senza disciplinare aspetti della vita civile e collettiva. Lo Stato non è laico, la religione cattolica è l’unica ufficialmente riconosciuta mentre gli altri culti - si pensi agli ebrei o alla nutrita comunità valdese del Piemonte - sono “tollerati” conformemente alle leggi. Lo Statuto Albertino è quindi una carte octroyée, ovvero una legge fondamentale “concessa” con un atto spontaneo dal sovrano e non frutto di un processo popolare, come invece la Costituzione della Repubblica Italiana: materialmente, quindi, lo statuto è redatto da un “Consiglio di Conferenza” (di fatto coincidente col Consiglio dei ministri della monarchia assoluta), nominato dal sovrano e non da un’assemblea costituente eletta dai cittadini. 

Pur nella nuova forma monarchico-rappresentativa disegnata dallo Statuto, il Re di Sardegna (e poi d’Italia) conserva dei poteri considerevoli tanto da poter essere considerato il vero centro della macchina statale, soprattutto grazie ad una imperfetta divisione dei poteri. Egli, infatti, condivide con il parlamento bicamerale il potere d’iniziativa legislativa mentre è titolare assoluto del potere esecutivo e di quello giudiziario. Il sovrano è allora colui che promulga le leggi, comanda le forze armate e gestisce in completa autonomia la politica estera del Regno: con la sola clausula di provvedere ad informare le camere dei trattati firmati “tosto che la sicurezza e l’interesse dello Stato il permettano”. Il sovrano è anche il solo che abbia potere di concedere la grazia ai condannati e di commutarne le pene. 

Anche nella vita parlamentare il re ha un ruolo determinante: non solo nomina personalmente i membri del Senato (scegliendoli tra una ventina di categorie che comprendono anche i vescovi e gli alti ufficiali) ma ha il potere di sciogliere a proprio piacimento la Camera dei Deputati quando le decisioni di questa non si accordino con la politica della monarchia, salvo l’obbligo di convocare nuove elezioni entro quattro mesi. Può inoltre, nel corso di una legislatura, modificare gli equilibri parlamentari tramite “infornate” di senatori (il cui numero complessivo non è stabilito) favorevoli alla corona. Come ognuna delle due camere, anche il sovrano può proporre le leggi: solo le iniziative riguardanti nuovi tributi o i conti dello Stato devono necessariamente partire dalla Camera dei Deputati. 

Dal punto di vista dei diritti e doveri dei cittadini, la situazione prefigurata dallo Statuto Albertino è quella di una tipica monarchia liberale ottocentesca: le libertà e i diritti individuali sono garantiti ma la partecipazione alla cosa pubblica è riservata a un’élite culturale, militare ed economica. L’habeas corpus (ovvero il diritto alla libertà personale ad di fuori di un mandato dell’autorità giudiziaria) e la libertà di stampa sono garantiti: nel secondo caso si rimanda alla legge ordinaria per la repressione degli abusi, escludendo quindi la censura preventiva, come invece avveniva negli Stati di Ancien régimeIl diritto di proprietà è inviolabile e l’esproprio è consentito solo dietro una “giusta indennità”. La natura notabilare della politica del regno emerge più chiaramente dall’organizzazione della vita parlamentare: non solo il Senato, di nomina regia, è progettato per moderare, con il proprio atteggiamento conservatore, le iniziative della Camera eletta dal popolo, ma anche il corpo elettorale, di cui i deputati sono espressione, non è che una parte molto ristretta degli abitanti del regno, a causa di una legge elettorale tutt’altro che inclusiva 1

 Lo Statuto, inoltre, prescrive esplicitamente che i deputati e i senatori non debbano ricevere alcun compenso né indennizzo per la loro attività, precludendo dunque implicitamente la rappresentanza politica a tutti coloro che non abbiano rendite tali da poter rinunciare a lavorare durante il mandato. 

I modelli europei: una Costituzione “sorpassata” alla nascita? 

Lo Statuto Albertino non nasce completamente avulso dal contemporaneo panorama legislativo europeo e i membri del “Consiglio di Conferenza” traggono ispirazione da altre carte presenti sul continente. Vista la necessità di redigere una carta fortemente centrata sul ruolo della monarchia e che in qualche modo riprenda le caratteristiche dell’ “assolutismo illuminato” prerivoluzionario, i due modelli maggiormente presenti agli occhi dei costituenti piemontesi sono quello francese del 1830 e quello, assai simile al precedente, adottato dal Belgio al momento dell’indipendenza nel 1831. In particolare la costituzione orleanista, emersa dopo le “trois glorieuses” e scritta per consacrare la monarchia costituzionale dopo la cacciata di Carlo X, è quella che risponde alle caratteristiche richieste dai legislatori piemontesi. Infatti anche in essa la sovranità non appartiene al popolo e il ruolo della monarchia è ampiamente salvaguardato. Paradossalmente, nel Regno di Sardegna si decide di adottare una costituzione quasi “gemella” di quella francese, proprio poche settimane prima che questa, sulla spinta dei moti del ‘48 e della caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orléans, venga definitivamente abrogata. A Parigi, infatti, la monarchia costituzionale si rivela inadeguata ad arginare i fermenti popolari e la Francia vedrà succedersi dapprima l’effimera Seconda Repubblica (destinata a durare solo quattro anni) e in seguito il cesarismo plebiscitario di Napoleone III. In un’Italia ancora da unificare, invece, lo Statuto Albertino, seppur “arretrato” rispetto ad altre esperienze europee, consente al Regno di Sardegna di diventare il centro di ispirazione di gran parte del liberalismo patriottico nazionale e a Casa Savoia di porsi alla testa del movimento di unificazione e trasformarsi da piccola dinastia regionale a monarchia nazionale di tipo europeo

Le principali evoluzioni dello Statuto nell’Italia monarchica 

Lo Statuto Albertino non dà indicazioni esplicite sul rapporto necessario tra Parlamento, sovrano e Governo. Tuttavia, fin da subito, i sovrani di Casa Savoia scelgono di non mantenere in piedi esecutivi che non godano dell’approvazione del Parlamento. Pur senza la verifica di un esplicito voto di fiducia, è il sovrano a far dimettere i governi la cui politica non sia condivisa dalla maggioranza parlamentare. Con una mentalità più arcaica, invece, i singoli ministri sono considerati collaboratori, anzi  consiglieri personali del sovrano, ed è lui a nominarli (ed eventualmente a destituirli senza tener conto delle forze politiche presenti nell’assemblea. I membri del governo, che non sono necessariamente scelti tra i parlamentari, non possono essere condizionati da questo se non nel caso in cui siano messi in stato d’accusa con la Camera dei Deputati nel ruolo di accusatore e il Senato in quello di collegio giudicante. Negli anni successivi, tuttavia, la prassi conferma l’indirizzo “parlamentarista” di Casa Savoia, per cui il sovrano è chiamato a sostituire anche un singolo ministro in caso di plateale conflitto di questi con le assemblee parlamentari. In caso di conflitto di un intero esecutivo con la Camera dei Deputati, invece, il sovrano può scegliere secondo la propria convenienza politica se sciogliere l’uno o l’altra, senza che lo Statuto, per sua natura flessibile, dia regole precise per dirimere la questione. 

Nel 1850 viene creato l’organo collegiale definito Consiglio dei Ministri, di cui una legge stabilisce le attribuzioni e, sempre in via di prassi, assume maggior importanza la figura del Presidente del Consiglio, portata definitivamente ai livelli di cruciale importanza per lo Stato dai mandati consecutivi del Conte di Cavour. La tendenza è dunque quella di una progressiva acquisizione di poteri da parte del Parlamento, a cui corrisponde una riduzione delle aree di discrezione del sovrano. Questo aspetto, negli ultimi anni del secolo, preoccupa gli esponenti della Destra storica, che vedono nel parlamentarismo un possibile mezzo per l’espansione del socialismo e del clericalismo. Sono queste inquietudini che spingono, nel 1897, Sidney Sonnino a dare alle stampe il famoso articolo Torniamo allo Statuto! in cui invita il sovrano a riprendere tutte le proprie funzioni per evitare l’ingestibilità di un regime assembleare. Con la nascita dei movimenti di massa, tuttavia, le aspirazioni di Sonnino erano divenute anacronistiche e l’Italia, per forza di cose, si era trasformata in un regime compiutamente liberale paragonabile a quello inglese o francese della Terza Repubblica. Lo Statuto si era duttilmente adattato a queste esigenze senza bisogno di modifiche formali. Con l’avvento della dittatura fascista, tuttavia, anche i blandi limiti dello Statuto Albertino risultano troppo rigidi per l’autocrazia del regime di Mussolini: libertà di stampa, libertà personale e libertà di riunione restano formalmente in vigore sulle pagine dello Statuto ma, nei fatti, vengono cancellati dall’azione squadracce fasciste. La monarchia, che la carta costituzionale voleva come perno della vita pubblica, resta in piedi, ma viene gradualmente soppiantata dalle strutture del partito unico: lo Statuto Albertino, tipico del XIX secolo, viene definitivamente cancellato da un governo autoritario, frutto del XX secolo. 

1 La legge elettorale del 17 marzo 1848, non inserita nello Statuto, prevede che possano votare i soli “regnicoli” maschi maggiori di venticinque anni (mentre non si può essere eletti con meno di trent’anni), capaci di leggere e scrivere e che paghino una somma molto elevata (40 lire) di censuo annuo. A quest’ultima caratteristica è possibile derogare nel caso di individui con particolari meriti professionali o culturali, come magistrati, professori, ufficiali etc. Il sistema di voto prevede 240 collegi uninominali (ognuno dei quali esprime un deputato) anch’essi tipici di una concezione notabilare e personalistica dell’attività politica.