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“Paradiso”, Canto 17: riassunto e analisi

Introduzione

 

Nel canto XVII del Paradiso, Dante si trova ancora nel cielo di Marte: prosegue il suo colloquio con Cacciaguida, al quale chiede delucidazioni sulle numerose profezie che sono state pronunciate nei suoi confronti nel corso del suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio. Cacciaguida predice a Dante l’esilio, i dissapori con i compagni della fazione guelfa bianca e l’amicizia con gli Scaligeri di Verona, prima Bartolomeo e poi - soprattutto - con Cangrande, che sarà suo protettore. Cacciaguida tesse profeticamente le lodi del futuro signore di Verona, anche se questi al momento del viaggio di Dante in Paradiso è ancora bambino. Di fronte ai dubbi di Dante sull’opportunità di raccontare o meno nel mondo ciò che ha visto durante il suo viaggio oltramondano, l’avo gli risponde che la sua testimonianza ha valore provvidenziale, sacro ed educativo.

 

Riassunto

 

A colloquio con Cacciaguida, il poeta ha l’ardente desiderio di fare una domanda, tanto da paragonarsi al mitologico Fetonte, il quale, dopo le insinuazioni di Epafo, si era recato con ansia dalla madre Climene per chiederle se Apollo fosse realmente suo padre. Tutti i beati sono onniscienti, poiché vedono la verità direttamente in Dio; Beatrice e Cacciaguida, dunque, conoscono i pensieri di Dante. Ciononostante, Beatrice lo esorta ad esternarli ad alta voce, poiché è importante essere capaci di dare giusta forma ai propri bisogni. Dante, consapevole appunto della facoltà delle anime dell’aldilà di vedere ogni avvenimento attraverso Dio e ricordando come molte volte le ombre dell’Inferno e del Purgatorio abbiano usato questa facoltà per fornirgli misteriose profezie sul suo futuro, chiede ora a Cacciaguida una spiegazione chiara.

Cacciaguida, dopo aver ribadito l’onniscienza dei beati in Dio, profetizza al suo discendente che verrà allontanato da Firenze, così come era accaduto ad Ippolito, che, innocente, aveva dovuto lasciare Atene per un’ingiusta accusa della sua matrigna. Cacciaguida aggiunge che la sua cacciata è in corso d’opera in quel momento presso la curia romana.

L’esilio sarà fonte di dolore e fatica, Dante dovrà lasciare tutto ciò a cui tiene maggiormente, sarà costretto a mendicare l’ospitalità altrui e si troverà a dover condividere l’esilio con compagni indegni e malvagi (cioè, gli altri guelfi bianchi), destinati però ad una fine tragica in seguito ai loro vani tentativi di rientrare in patria. Dante verrà però accolto dal signore di Verona, Bartolomeo della Scala, presso il quale conoscerà Cangrande, il cui valore sarà grande. Su questo punto Cacciaguida aggiunge ulteriori dettagli che tuttavia Dante non potrà raccontare in terra. Infine, conclude il suo discorso raccomandando a Dante di non provar odio per i suoi concittadini, perché è destinato a vivere più a lungo di loro e a vederne la punizione.

Questa spiegazione ha però fatto sorgere in Dante ulteriori dubbi: il poeta si chiede se sia opportuno riportare quanto visto e sentito nel suo viaggio ultramondano - compresi tutti i dettagli dolenti - che potrebbero risultare fastidiosi per molti lettori. Egli teme perciò diinimicarsi anche persone cui potrebbe essere costretto di dover chiedere aiuto durante l’esilio. D’altronde, rinunciando alla verità, il suo desiderio di gloria letteraria rimarrebbe insoddisfatto, perché il suo poema risulterebbe privo di utilità ed energia. Cacciaguida lo invita a raccontare tutta la verità, anche se le sue parole potranno risultare sgradite ad alcuni, perché il suo viaggio sarà così salutare ed esemplare per tutti gli uomini.

 

Analisi e commento

 

Tutto il canto diciassettesimo si spiega in relazione alla conclusione del canto precedente, e più in generale all’ampio discorso di Dante con il suo avo: Cacciaguida aveva dapprima rievocato il nobile passato fiorentino e poi predetto le divisioni interne a Firenze che ne avrebbero determinato la definitiva crisi. Di fronte a tale manifestazioni di preveggenza, Dante ricorda i dubbi circa il proprio destino che sono stati suscitati dalle numerose oscure predizioni ascoltate nel corso del suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio. Il canto ha quindi in primo luogo una funzione centrale rispetto all’intero poema (e non a caso si trova a metà della Cantica cui appartiene), in cui determina un elemento di coerenza e coesione, riprendendo e portando a conclusione linee narrative rimaste in precedenza sottese. Vale la pena di notare che cià vale soprattutto per le cosiddette profezie post eventum, cioè profezie che preannunciano avvenimenti successivi al 1300 e al viaggio oltremondano, e che quindi per il personaggio Dante sono davvero profezie, ma che si sono realizzate prima che il poema fosse scritto e perciò per l’autore sono già storia. Insomma, sono profezie già avverate e con ciò senz’altro veritiere, come appunto quella dell’esilio dantesco e dei suoi rapporti con i bianchi fuoriusciti o con gli Scaligeri, di cui si parla con ampiezza in questa canto. Anche la decadenza di Firenze si può considerare per certi aspetti già avviata quando Dante comincia a scrivere, proprio a causa dell’ingerenza pontificia, suggerita nel Canto, e di quella dei francesi. L’invito di Beatrice ad esprimere in modo esplicito i propri desideri e la dotta considerazione di Dante sull’onniscienza dei beati non sono dunque strettamente necessari allo sviluppo del canto; piuttosto creano un momento di riflessione e distensione tra gli intensi discorsi dei canti precedenti e del diciassettesimo.

Il canto diciassettesimo ha poi l’altissimo valore di giustificare e argomentare sia il significato del viaggio, sia la stesura del poema, sia la durezza di alcuni giudizi ed affermazioni che vi sono contenuti. Come già nei canti dell’Eden, alla fine del Purgatorio, Dante presenta il proprio impegno come una missione: non solo un viaggio destinato a salvarlo, purificandone i peccati - come più volte il poeta lascia intendere nei canti iniziali del Purgatorio - ma anche un’esperienza esemplare ed educativa che, offerta come insegnamento agli uomini, potrà rettificarne i comportamenti, attraverso la scoperta della verità, il timore della pena, la speranza della beatitudine. Se consideriamo che Dante scrive non solo dopo il momento del viaggio, ma anche dopo che l’Inferno e il Purgatorio sono già stati scritti e letti, allora si capisce che, dichiarando di aver riportato sulla pagina soltanto la verità di ciò che ha visto per offrire un utile insegnamento ai suoi lettori, egli si difende dalle accuse del pubblico dell’epoca, accuse che Dante poteva prevedere e che forse in parte aveva già ricevuto. D’altra parte, tutta la Commedia risulta basata sulla sacralità del viaggio oltremondano dantesco e sul compito assegnatogli da Dio: gli attacchi a ricchi e potenti sono dunque del tutto giustificati.

Come noto, l’esemplarità dell’esperienza del pellegrino coinvolge Dante a tutto tondo, come uomo, personaggio e viaggiatore: sin da quando si trova nella selva, e poi davanti alle fiere, e poi nella discesa verso Lucifero e nella purificazione lungo le pendici del Purgatorio, Dante è al contempo se stesso e tutti gli uomini, nel loro comune cammino esistenziale, tra cadute e risalite. Anche la questione dell’esilio rientra in questo quadro, poiché Dante considera la propria vicenda come parte della storia universale: le sue ingiuste vicende sono frutto della corruzione generale. In questo caso, è stata determinante l’ingerenza di Bonifacio VIII, che si prefiggeva l’eliminazione dei guelfi bianchi come forza politica. La disgrazia di Dante è un’imprevista ma inevitabile conseguenza. Un altro elemento politico significativo concerne le critiche rivolte ai futuri compagni di esilio: si tratta di un’apologia del distacco di Dante dalla fazione Bianca e dalle accuse a lui imputate. La vergognosa condotta dei suoi compagni sarà, secondo Dante, resa tangibile dal corso degli eventi (come dimostrerà la loro tragica fine).