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Boccaccio, "Ser Ciappelletto": analisi e commento della novella

Introduzione

 

Ser Cepparello da Prato è la prima novella del Decameron, narrata durante la prima giornata da Panfilo, uno dei membri dell’ "allegra brigata”. Se è da ricordare che la prima giornata, "sotto il reggimento di Pampinea", è a tema libero, va tuttavia notato - come da tempo ha fatto la critica - che le dieci storie d'apertura insistono, con notevole coerenza tematica, attorno alla corruzione dei potenti e alla condanna (non moralistica, ma spesso con lo strumento del riso e della "beffa" arguta) dei vizi degli strati più elevati della società. In tal senso, la storia di Cepparello (o Ciappelletto, secondo il nome che il personaggio assume in Francia) è davvero emblematica: un incallito peccatore riesce, in punto di morte, ad ingannare i suoi confessori e a passar per santo, con tanto di seguito di fedeli devoti.

 

Riassunto

 

Probabilmente il protagonista del racconto, Ciappelletto, è un personaggio realmente esistito all’epoca di Boccaccio: è stato identificato, infatti, con un certo Cepparello o Ciapparello Dietaiuti da Prato che, alla fine del Duecento, si occupava di raccogliere le decime e le taglie per il re di Francia Carlo di Valois e il papa Bonifacio VIII. Inoltre, anche colui che introduce Ciappelletto nella novella, il mercante Musciatto Franzesi, è un personaggio storico attestato. Dai dati cronachistici, Panfilo (che è il narratore deputato ad aprire il Decameron) passa subito alla vivace caratterizzazione di Ciappelletto - con l'appellativo di "ser" poiché notaio -, figura che incarna tutti i vizi e i difetti umani:

Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo.

La figura perversa ed abietta di Ciappelletto permette a Boccaccio di divertirsi con una serie di giochi retorici, funzionali ad instaurare un sottile sottofondo ironico tra il narratore e il lettore: l'iperbole sottolinea le malvagità di Ciappelletto ("il piggiore uomo forse che mai nascesse") mentre l'antifrasi evidenzia le convenzioni sociali del tempo, e l'ottica con cui la classe mercantile era sogguardata dalla maggior parte dei benpensanti; il protagonista, proprio in quanto notaio, si vergogna della propria onestà, anziché delle proprie truffe. Ovviamente, Ciappelletto non ha alcuna fede religiosa né frequenta la chiesa: “A chiesa non usava giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva”. Un giorno però, mentre si trova ospite di due fratelli usurai fiorentini in Borgogna (Francia), Ciappelletto ha un malore, tanto da capire di essere vicino alla morte. I due mercanti, consci della pessima condotta morale del loro ospite, iniziano a chiedersi come comportarsi: non possono seppellire il moribondo in terreno consacrato senza prima farlo confessare e dargli l’estrema unzione, ma non possono nemmeno pretendere che un prete, venuto a conoscenza della vita di Ciappelletto, gli accordi il perdono. Ciappelletto, dopo aver sentito il dialogo preoccupato e lamentoso tra i padroni di casa, decide di toglierli dall’imbarazzo chiedendo egli stesso un confessore. Da subito, si prefigura un tratto tipico dei personaggi boccacciani: la virtù, ambigua e paradossale, della "beffa", dell'ingannare gli altri e del compiacimento nel farlo.

Così il nostro protagonista sceglie di dare al prete un riassunto assai edulcorato della propria condotta di vita, tanto che il religioso, dopo la morte di Ciappelletto, lo santifica con parole commosse ed accorate:

- Oh -, disse ser Ciappelletto, - cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto, e chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei  più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio.

Le capacità di parola di Ciappelletto sono tali da ottenere non solo la remissione dei peccati (anche se Boccaccio non si sbilancia sulla sorte ultraterrena del suo protagonista) ma addirittura un culto post mortem, che nasce dalla predica agiografica del frate che ne celebra le esequie.  

 

Ciappelletto e l’exemplum rovesciato del Decameron

 

Anche ser Ciappelletto, come molti protagonisti delle novelle del Decameron, usa il proprio ingegno per risolvere la trama della complessa vicenda. In questo racconto Boccaccio non presenta solo la mancanza di morale (o, secondo un altro punto di vista, l'arguzia) della classe borghese-mercantile in opposizione all’ingenuità della Chiesa (emblematizzata ovviamente dalla figura del povero prete abbindolato dal furbo mercante), ma preannuncia, come testo proemiale, anche alcuni temi-cardine del suo capolavoro: lo spazio concesso alla fortuna e all'ingegno umano, inteso come capacità di cogliere l'occasione al volo, la comicità delle vicende umane, di cui si rifiutano letture moralistiche o trascendenti, la teatralità dei rapporti umani (Ciappelletto, in un certo senso, "mette in scena" una versione alternativa della propria vita, come se si trattasse di una narrazione all’interno di un’altra narrazione) dominata dalle risorse del dialogo e della parola umana.

Il gusto della “beffa” e del capovolgimento della morale da parte di Cepparello/Ciapparello prende spunto certo dalla base aneddottica che spesso Boccaccio rielabora nelle sue novelle - basti pensare al caso di Calandrino - ma si regge anche sulla straordinaria abilità retorica del protagonista principale, che, in materia di inganni verbali, si dimostra uno dei grandi campioni delle dieci giornate del Decameron. Come Panfilo ci spiega, introducendone il ritratto:

Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato 1; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato 2. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato 3.

E il ribaltamento della realtà colpisce il narratore stesso, che confessa: “negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio”. Le capacità retoriche di Cepparello sono allora la migliore introduzione all’arte del racconto, intesa come facoltà tutta umana di garantirsi il miglior tornaconto personale. Cepparello diventa insomma l’exemplum rovesciato, disonesto ma divertentissimo, che, nella conclusione del Decameron, vedrà la sua antitesi nella morale del sacrificio di Griselda.

 

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1 Cepparello insomma si vergognerebbe molto se, nello svolgimento della sua professione notarile, gli capitasse di fare un atto onesto; il rovesciamento di prospettiva è una delle tecniche principali del “comico” boccacciano.

2 Non solo Cepparello si vergogna di poter essere onesto, ma preferisce addirittura redigere atti falsi gratuitamente, piuttosto che essere pagato molto bene (“grandemente salariato”) per una pratica a norma di legge.

3 Cepparello trionfa in tutte le case giurando solennemente sui sacramenti e la propria fede: la sua capacità di ingannare è insomma acclarata fin da prima della narrazione vera e propria.