10'

“Inferno”, Canto 18: riassunto e analisi

Introduzione

 

Giunti all’ottavo cerchio grazie a Gerione, nel canto XVIII Dante e Virgilio attraversano la prima e la seconda delle dieci Malebolge, nelle quali scontano la loro pena rispettivamente ruffiani e seduttori da una parte e adulatori dall’altra. I primi girano in cerchio, in senso opposto gli uni rispetto agli altri, e sono frustati a ogni passo da demoni cornuti, mentre gli adulatori sono sommersi fino alla testa in un mare di letame. Il canto ha un’impostazione comica, sia per immagini sia per contenuto, benché il disprezzo di Dante per le colpe di queste anime e la durezza con cui sono presentati alcuni personaggi celeberrimi (sia contemporanei che letterari) dimostrino come ormai il poeta sia giunto nella parte più fonda dell’Inferno. In particolare, Dante presenta due nobili della sua epoca, il bolognese Venedico Caccianemico, che aveva venduto la sorella al marchese d’Este, e il lucchese Alessio Interminelli,inoltre Giasone, il mitico eroe della conquista del Vello d’oro, e Taide, personaggio dell’Eunucus di Terenzio citato anche da Cicerone.

 

Riassunto

 

Dante e Virgilio, scesi dalla schiena di Gerione, mostro mitologico dal volto umano e dal corpo animalesco che li ha aiutati a colmare l’enorme dislivello che separa il settimo dall’ottavo cerchio, si trovano nella piana delle Malebolge, cioè sacche di dolore o di malvagità. I primi ventuno versi sono dedicati alla sua descrizione topografica: una zona in declivio verso il centro, dove si apre un pozzo enorme il cui fondo costituisce il nono cerchio. La piana è delimitata da una parete esterna, alla cui sommità vi è il confine con il settimo cerchio, da cui partono rupi fatte della medesima pietra: domina quindi il suo colore ferrigno. Lo spazio tra la parete e il pozzo è divisa in dieci cerchi concentrici, simili a trincee o ai fossati costruiti a difesa dei castelli, cui appunto Dante li paragona. Queste sono dunque le bolge: dall’una all’altra si passa grazie a ponti che creano una raggera all’interno della circonferenza e che sono caratterizzati dall’avere una gobba al centro (cioè, a “schiena d’asino”).

Nella prima bolgia, divisa in due parti - due anelli concentrici esattamente uguali - , sono puniti i ruffiani, ovvero coloro che hanno indotto delle donne a soddisfare le voglie di qualcuno, e i seduttori, che esercitarono il medesimo inganno a proprio vantaggio, invece che a quello altrui. I primi procedono in senso opposto ai poeti, e Dante può vederli in viso; gli altri si muovono invece nella medesima direzione dei due poeti. Per spiegare meglio ciò che ha visto, Dante utilizza una similitudine tratta dalla storia recente: infatti, durante il Giubileo, per fronteggiare la massa di pellegrini che si erano recati a Roma per ottenere le indulgenze promesse da Bonifacio VIII a chi avesse compiuto speciali atti liturgici, il ponte di Castel Sant’Angelo era stato diviso in due corsie, separate da transenne: da una parte stavano i pellegrini che dovevano accedere a San Pietro, dall’altra chi aveva già visitato la basilica. L’idea era ingegnosa e il poeta poteva essere certo che i lettori contemporanei la ricordassero bene. La punizione di questi peccatori consiste nell’essere continuamente frustati sulla schiena da diavoli cornuti: quasi tutti dunque si muovono correndo, per cercare un po’ di scampo.

Dante riconosce le fattezze di uno dei ruffiani e si ferma per accertarsi di ciò che ha visto. Si tratta di Venedico Caccianemico, nobile bolognese, capofazione dei guelfi della città, spesso vittorioso contro i Lambertini (ghibellini) e favorevole alle mire espansionistiche degli Estensi di Ferrara ai danni del suo Comune, motivo per cui probabilmente fu esiliato due volte. Venedico stesso confessa spontaneamente la colpa per cui si trova nella prima bolgia: ha venduto la sorella Ghisolabella al marchese d’Este. La vicenda era oscura al tempo di Dante e, come sottolinea il dannato stesso, ne circolavano diverse versioni: in particolare non è chiaro se l’interesse del peccatore fosse più politico o più economico.

Il colloquio con Venedico è interrotto dall’intervento di un demone che, con una scudisciata, fa avanzare il dannato, con una battuta derisoria: nessuno ha il diritto di fermarsi e godere di qualche sollievo. Dante e Virgilio proseguono quindi volgendo il viso in modo tale da poter guardare i dannati che procedono nella loro stessa direzione. Virgilio indica a Dante Giasone, con parole di rispetto per l’eroe della conquista del Vello d’oro. Giasone sconta ben due seduzioni, l’una ai danni di Medea, l’altra di Isifile, una giovane dell’isola di Lemno. Questo luogo era celebre nella tradizione classica per la ribellione delle donne che, scontente degli uomini rei di non prestar loro sufficienti attenzioni, li avevano massacrati senza risparmiare nessun parente. Isifile però aveva ingannato le sue compagne per salvare il padre: la sua non è una colpa ma un atto di pietà. Dante preferisce insistere sulla patetica storia di Isifile che su quella di Medea: la prima appare come una vera vittima, mentre la seconda era stata capace di vendicarsi con straordinaria violenza, uccidendo i figli che aveva avuto da Giasone per tormentarne la coscienza.

Dante e Virgilio continuano quindi il loro cammino scendendo alla bolgia successiva, da cui provengono disgustose esalazioni. Qui, infatti, si trovano gli adulatori, sommersi da escrementi umani. Dante incontra un altro personaggio del suo tempo, che infatti riconosce subito: Alessio Interminelli, nobile lucchese della fazione dei bianchi, di cui si conosce molto poco. Infine Virgilio indica al suo protetto la prostituta Taide, che aveva fondato il suo mestiere sull’adulazione. Qui Dante ricorda più ciò che ha letto in Cicerone e nel Liber Esopi che il ritratto originario della donna nella commedia di Terenzio: qui infatti non è lei a pronunciare l’adulazione, ma un servo, benché riferendosi proprio a Taide. Però nel Liber Esopi ella era definita “puttana”, mentre Cicerone nel De amicitia non citava precisamente le parole in questione: ecco perché Dante fa ricadere il peccato interamente sulla figura femminile. A questo punto la vista è talmente ripugnante che i loro sguardi sono sazi, e i due poeti passano oltre.

 

Analisi e commento

 

Il Canto XVIII apre precisamente la seconda metà della cantica infernale, che tratta della parte più bassa dell’Inferno, dove vengono puniti i traditori, ovverossia quelli che in vita hanno usato l’intelligenza, caratteristica costitutiva e dunque più nobile dell’uomo, contro il prossimo. Si tratta quindi dell’umanità nella sua veste più degradata e corrotta, verso cui Dante mostra particolare disprezzo. Ciò è evidente senza dubbio nellle pene scelte, nelle sue dure condanne ed invettive, nello stile prevalente, ma non però per il rapporto di Dante come personaggio rispetto agli altri personaggi che incontra. Infatti, come nella prima metà della xantica, a volte egli appare commosso dalla condizione delle anime e rispettoso nei loro confronti, come avviene per Giasone proprio nel canto XVIII. Da questo punto di vista, perciò, l’alto e il basso Inferno non paiono radicalmente diversi. Una differenza si coglie nei guardiani proposti da Dante: non più figure grandiose della tradizione classica, ma semplici diavoli, legati all’iconografia medievale, spesso grotteschi e bestiali, ma soprattutto comici, a volte persino divertenti nelle loro battute e nei rozzi litigi.

In particolare l’ottavo cerchio, organizzato in dieci Malebolge, cioè “borse piene di male” (quello che hanno compiuto le anime e quello che ora soffrono come giusta punizione), ospita la pena dei fraudolenti. La chiave della loro colpa risiede soprattutto nell’inganno, in coerenza con la definizione di tutto l’ottavo cerchio: i fraudolenti sono infatti per definizione degli ingannatori. Si noti però che la furbizia è proprio ciò che distingue i seduttori dai lussuriosi: questi ultimi infatti non hanno sfruttato la passione altrui, ma vi hanno partecipato e ne sono stati travolti a loro volta. Le pene che qui Dante sceglie, in tutti e tre i casi, sono più umilianti che dolorose: ciò vale sia per le frustate della prima bolgia, concentrate sulla parte posteriore del corpo, come fossero sculacciate, sia a maggior ragione per il lago di sterco in cui si trovano gli adulatori. Non deve stupire che con questi ultimi il poeta si accanisca particolarmente: adulare significa non prendere una posizione indipendente e coraggiosa, pronta anche allo scontro, aspetti che invece caratterizzano in pieno l’operato di Dante, sia come uomo sia come autore. E infatti proprio in questo canto egli sceglie di condannare per vizi particolarmente ripugnanti due personaggi del suo tempo, molto noti e appartenenti a famiglie potentissime, in vista per il loro operato politico e per l’importanza della loro fazione. Allo stesso modo vanno valutate la menzione del marchese d’Este come complice di Venedico nel maltrattamento della sorella e il riferimento ai bolognesi tutti come avidi per antonomasia. E l’avidità per Dante, intesa in senso ampio come cupidigia, è una colpa gravissima, che infatti appare sin dal primo canto dell’Inferno in veste di pericolosissima lupa. La giustificazione del coraggio poetico della Commedia si legge con chiarezza nei canti finali del Purgatorio e nel canto XVII del Paradiso: la missione dantesca è chiarita nella sua funzione salvifica e lo scontento che egli provocherà in molti lettori comunque sarà foriero di insegnamenti, oltre che di fama.

Il poeta sfrutta l’inizio del canto per fornire una rappresentazione piuttosto precisa del cerchio, ispirata a due principi fondamentali: da una parte il bisogno di dare concretezza visiva a questo spazio, che dunque, anche se dobbiamo ragionevolmente ammettere la sua vastità perché possa accogliere così tanti peccatori, appare a misura d’uomo, simile in effetti al castello che Dante usa come similitudine per spiegare la complessa struttura che si trova di fronte. Così l’effetto è più drammatico e forte per il lettore. D’altra parte va evidenziata la geometria delle forme: il cerchio con le zone concentriche all’interno, i confini di pietra, i ponti come raggi, anch’essi pietrosi, la divisione della prima bolgia in due parti. Una nota morale è fornita proprio dall’insistenza sul colore del grigio, che indica appunto un senso di morte, una dimensione cimiteriale. Questa puntuale descrizione, che nei canti successivi verrà precisata ed arricchita, occupa la prima parte del canto, che nel complesso risulta organizzato in tre momenti: seguono infatti i versi dedicati ai ruffiani e ai seduttori, e poi quelli sugli adulatori. In totale vengono introdotti quattro personaggi e ben due zone del cerchio: Dante procede in modo piuttosto rapido, dividendo per altro in modo secco e perentorio le porzioni della narrazione, sfruttando a questo scopo le energiche indicazioni di Virgilio sulla necessità di proseguire. Non sembra però che ci sia una ragione morale, un particolare odio nei confronti di questi dannati: probabilmente, sono valide più che altro ragioni narrative, legate all’organizzazione della materia nel complesso della cantica.

I personaggi propongono un perfetto equilibrio tra fonti contemporanee (Venedico e Alessio) e personaggi classici (Giasone e Taide). Ma mentre i due contemporanei e il personaggio femminile - negazione in verità di ogni delicatezza femminile - sono rappresentativi della riprovevole decadenza nel segno del peccato, l’eroe della nave Argo identifica una prospettiva ben diversa. Giasone, infatti, è in primo luogo un eroe, il primo navigante, coraggiosissimo comandante della prima nave mai costruita, l’Argo, più volte citata nella Commedia. Egli è un magnanimo, cioè un uomo grande, degno, nobile come riflette anche il suo atteggiamento: non scappa né corre, ma cammina, non esterna la sua sofferenza, ma si presenta dignitoso. Ciò, come nel caso di Farinata e Ulisse, non impedisce che egli sia anche un peccatore, visto come ha trattato Medea ed Isifile; tuttavia in lui aspetti positivi e negativi sono compresenti, è un personaggio complesso, a tutto tondo.

Infine, caratteristica essenziale dell’intero canto è lo stile comico ed aspro. Dante sceglie suoni duri - spesso in rima o in allitterazione -, termini espliciti, immagini forti e grottesche; questi effetti sono favoriti anche dalla trasposizione della lingua parlata nella scrittura poetica. Queste scelte poetiche sono d’altronde sottolineate dalla differenza stilistica con l’episodio di Giasone, moralmente superiore agli altri tre peccatori, per il quale Dante sceglie un’intonazione più armonica.