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"Digitale purpurea" di Giovanni Pascoli: analisi e commento

Parafrasi Commento

Introduzione


Digitale purpurea viene inizialmente pubblicata un anno dopo la prima edizione dei Poemetti (1897) e ne prosegue la linea stilistica e poetica: una raccolta cioè incentrata sulla trasfigurazione del mondo contadino ed agreste, con particolare rilievo per la campagna lucchese di Castelvecchio di Barga.


Il motto della nuova raccolta - che come sempre in Pascoli estrapola un segmento dell’incipit della quarta bucolica di Virgilio: “Sicelides musae, paulo maiora canamus! | non omnis arbusta iuvant humilesque myricae” 1 - è “Paulo maiora” e coincide con le scelte compiute in Digitale purpurea, a partire dal metro (la terzina dantesca) fino all’uso attentissimo del lessico, delle immagini, delle sequenze fonosimboliche. Queste scelte di poetica giustificano anche la sede della prima pubblicazione, cioè la neonata rivista fiorentina «Il Marzocco» (cui collaborerà anche Gabriele D’Annunzio), che si proponeva come voce dell’estetismo del pubblico medio-borghese.


Analisi


Lo spunto per la composizione di Digitale purpurea - a sentire la testimonianza della sorella Maria - deriva a Pascoli da una circostanza precisa: il divieto fatto molti anni prima da una suora del convento di Sogliano al Rubicone a Maria stessa e alle altre educande di respirare il profumo di una pianticella dai fiori rosso porpora, considerata velenosissima. Se in realtà l’estratto della “digitale” è pericoloso solo in massicce concentrazione, conta molto di più il processo di rielaborazione di questo ricordo, attraverso cui il poeta concentra nella Digitale purpurea alcune costanti profonde della propria poetica e della propria visione del mondo (come la sensazione perturbante della violazione del “nido” familiare, la percezione della realtà da un  punto di vista “straniato” ed alterato, il fascino inquieto e simbolico della realtà naturale).


Pascoli sceglie allora di ricreare una piccola scenetta narrativa 2, costruita sul dialogo tra due personaggi femminili (Maria e Rachele) e sull’ampio flashback che occupa quasi interamente la seconda e la terza sezione. Questa necessità di raccontare spiega allora la scelta della terzina di endecasillabi, un metro assai narrativo che Pascoli piega alle proprie esigenze espressive, attraverso l’uso di enjambements 3, anafore ed effetti ritmici.


L’effetto è allora quello dell’evocazione del mondo d’infanzia, e più precisamente della vita al convento della sorella Maria (come segnala il verbo “Vedono” al v. 26, che apre la lunga parentesi del ricordo) memoriale; la riemersione dal passato dei “dolci anni che sai” (v. 9) non è però esente da una sensazione di inquietudine indecifrabile, connessa proprio al “triste fiore” (v. 18) cui Maria e Rachele, da bambine, associavano l’idea di morte (e che a poco a poco si caratterizza invece come la rimozione psicoanalitica, secondo la formulazione di Sigmund Freud, della tentazione sessuale). Questo procedimento funziona attraverso dettagli, particolari, impressioni fugaci che stimolano l’affioramento in superficie di una verità non conosciuta o non compresa 4. Il conflitto latente è insomma quello tra l’innocenza del mondo felice d’infanzia e la scoperta del sesso, che è al tempo stesso affascinante e minaccioso come la pianta della digitale, che nella prospettiva distorta delle due bambine diviene “una spiga [...] di dita | spruzzolate di sangue, dita umane” (vv. 48-49).


La prospettiva del racconto asseconda questa rivelazione perturbante perché rimane sempre quella di Maria e Rachele di un tempo, che ora dialogano e ricordano a due voci 5. La dimensione dell’ignoto si può schiudere ed illuminare solo per allusione, come nella confessione finale di Rachele, al momento del congedo. In questa occasione, lei ammetterà di aver goduto la “dolcezza” (v. 72) - così “tanta” che alla fine “si muore” - della digitale purpurea.


La trasgressione del “nido” pascoliano

La Digitale purpurea ha quindi strette connessioni con la questione centrale in Pascoli della violazione del “nido” degli affetti intimi e familiari da parte di forze esterne percepite, quasi ossessivamente, come oscure e minacciose, ma non prive di un loro fascino misterioso. Se questo tema ha matrice autobiografica (l’omicidio del padre Ruggero il 10 aprile 1867, come ricordato anche in X Agosto e ne La cavalla storna), qui si sovrappongono altre possibili linee di lettura. Innanzitutto si può notare come la sintonia e l’armonia tra Maria 6 e Rachele sia tale solo fino ad un certo punto: all’inizio della terza sezione Rachele, decidendo di ammettere di fronte all’amica l’avvenuta trasgressione della regola, non alza gli occhi in sua direzione, come se fosse consapevole della distanza che la separa da lei.

E se la sua confessione è implicita ed indiretta 7 forse ciò è dovuto al fatto che, secondo la critica, dietro a Rachele si cela una figura tanto reale quanto quella di Maria. Con questa figura femminile Pascoli avrebbe infatti alluso ad un ulteriore “lutto” che spezza l’unità del suo microcosmo: il matrimonio della sorella Ida, che nel settembre 1895 abbandona il “nido” familiare, dolorosamente ricostruito dal poeta a Castelvecchio di Barga. E in tal senso per Pascoli la sessualità (intesa anche come accesso alla vita adulta e alla costituzione di una propria famiglia) non può che suonare come una promessa di morte.

1 Traduzione: “O muse della Sicilia! Eleviamo un po’ la materia del nostro canto! Non a tutti piacciono gli arbusti e l’umile tamerice”.

2 Lo stesso Pascoli, preannunciando i Poemetti nel 1895, chiarisce: “Sono di genere più elevato delle Myricae: [...] sono più raccontativi che lirici”.

3 Si noti che a volte l’enjambement si ha anche tra una terzina e l’altra, in posizione molto rilevata: vv. 6-7: “[...] Non le vedesti || più?”; vv. 62-63: “[...] odor di rose e di viole a || ciocche”.

4 Queste tessere della memoria possono essere la “litanie” (v. 28) del monastero, il suo odore “d’incenso” o “di rose e di viole a ciocche” (v. 30), le “tastiere appena appena tocche” (v. 34) dell’organo del convento, come se i ricordi di Maria e Rachele scaturissero mano a mano l’uno dall’altro. Questa tecnica, padroneggiata benissimo da Giovanni Pascoli (in particolare ai vv. 42-50), ha strette connessioni con le poetiche del Simbolismo e del Decadentismo, ma anticipa per certi versi la poesia del quotidiano di Guido Gozzano e di tutto il Crepuscolarismo.

5 Si spiega così l’ambiguità di certe scene, come quella in cui il sorriso di un “ospite caro” (v. 36) genera nelle ragazzine “rosse e liete” sia felicità che pianto, con una reazione che non viene compresa da chi sta narrando (vv. 40-42: “e poi d’un tratto (perché mai?) piangete… | Piangono, un poco, nel tramonto d’oro, | senza perché [...]”).

6 Assai significativo che dedicando nella Prefazione i Poemetti alla sorella Maria Pascoli tocchi, quasi contrapponendosi alla poetica del dolore dell’amato Leopardi, il tema del dolore e della funzione della poesia: “Non è vero, Maria? E benedetto dunque il dolore! Perchè in ciò riconoscere un atroce sgarbo della matrigna Natura, che il poco bene che ci dà, ci dia solo a patto di male? Io dico parola più giusta. Io dico: O madre Natura, siano grazie a te che anche dal male ricavi per noi il bene. [...] Ricordiamo, o Maria: ricordiamo! Il ricordo è del fatto come una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona, anche se di cose non belle”.

7 vv. 71-75: “E dirmi sentia, Vieni! | Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! | tanta, che, vedi... (l’altra lo stupore | alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta | con un suo lungo brivido...) si muore!”.