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Giovanni Verga, "La roba": riassunto e commento

Introduzione: La roba e le Novelle rusticane


La novella verghiana La roba, contenuta nella raccolta Novelle rusticane pubblicate dall’editore Casanova di Torino nel 1882, è un vero e proprio anello di congiunzione della carriera letteraria verghiana, di cui costituisce uno dei testi fondamentali. Elaborata durante i mesi della revisione de I Malavoglia (editi nel 1881 da Treves a Milano), il breve testo non racconta solo la vicenda di ascesa sociale del contadino Mazzarò, assai vicino al protagonista del Mastro-don Gesualdo, ma segna anche un passo in avanti della tecnica rappresentativa verista inaugurata da Vita dei campi e dal romanzo che apre il ciclo dei “vinti”.

Verga sceglie infatti nelle Novelle rusticane di ampliare il panorama della propria analisi, provando a descrivere la società siciliana del tempo nel suo complesso, come dimostrato anche da altri testi della raccolta (si vedano, a questo proposito, Che cos’è il re?, Don Licciu Papa, e Pane nero, solo per citarne alcuni). E non manca nemmeno - come tipico nel Verga verista, basti pensare a Fantasticheria o alla Prefazione all’Amante di Gramigna - il classico testo teorico (Di là del mare), collocato in ultima posizione. Parallelamente, si evolve anche il metodo dell’indagine socio-letteraria: l’autore progressivamente riduce il peso della tematica amorosa (quella di Cavalleria rusticana o de La Lupa) per sottolineare meglio l’effetto di quelle dinamiche economiche, che, come già illustrato da I Malavoglia, mettono in crisi le strutture tradizionali e l’identità stessa dell’individuo.


Riassunto e analisi


Così avviene ne La roba, novella sull’ascesa sociale e la tragedia personale di un contadino arricchitosi fino a estendere i propri possedimenti a gran parte delle terre a sud di Catania. La tecnica descrittiva dell’apertura del racconto è ancora quella che, nell’incipit de I Malavoglia, ci presentava l’abitato di Aci Trezza e la famiglia di Padron ‘Ntoni:

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: “Qui di chi è?” sentiva rispondersi: “Di Mazzarò” 1.

Il paesaggio che si presenta nella descrizione è un paesaggio sovrabbondante di “cose”, tutte di proprietà di Mazzarò, che viene introdotto e presentato dal punto di vista del narratore popolare (vicino al “lettighiere” che risponde al viandante)  che ne celebra le ricchezze ricorrendo a termini di paragone enfatici, tipici della mentalità contadina e rurale:

Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia 2

Il narratore corale sottolinea le qualità di Mazzarò che gli hanno permesso di giungere al rango di possidente terriero grazie a “una testa come un brillante”; la tecnica dell’accumulo serve ad elencare le difficili condizioni di quest’ascesa sociale 3 e le sconfinate ricchezze che Mazzarò ha accumulato nel corso degli anni:

Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, chè lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo 4.

La rigidissima regola di vita di Mazzarò è imperniata sul senso totalizzante del proprio lavoro che, per obbedire all’accumulo senza fine di beni e proprietà, sacrifica ogni altra realtà della vita (sino a considerare eccessivo l’esborso per il funerale della madre):

Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, nè quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto 5

È sempre il narratore popolare, entusiasta del successo e della scalata sociale di Mazzarò, a sintetizzare il sistema di valori del personaggio, con una frase assai simile ad un proverbio popolare 6 che viene ulteriormente sottolineato da un’affermazione di Mazzarò stesso:

“la roba non è di chi ce l’ha, ma di chi la sa fare” 7

Tuttavia, nel microcosmo verghiano c’è sempre l’altro lato della medaglia. Se il possesso fine a se stesso non assicura a Mazzarò il riconoscimento e il rispetto sociale (come avverrà anche per Gesualdo, anche se qui il protagonista pare curarsene ben poco), è la legge naturale a costringere Mazzarò ad un’amarissima resa dei conti. La conclusione della novella, che muta drasticamente il tono del racconto, mette in luce, con concisione tragica, gli esiti perversi del meccanismo della “roba”. Mazzarò, ossessionato dal possesso, realizza in maneira grottesca di non potersi portare le sue proprieta all’altro mondo:

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba mia, vientene con me!” 8.

Quelle che insomma sono delle linee-guida per costruire, di qui a pochi anni, il personaggio di Mastro don Gesualdo, diventano ne La roba il ritratto icastico e penetrante di una mentalità monomaniaca, schiavizzata dalla legge del continuo accumulo. E il cupo pessimismo del Verga narratore dipenderà certo anche da questa analisi impietosa dell’animo umano.

1 G. Verga, La roba, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 2004, vol I, p. 262.

2 Ivi, p. 263. Si noti che in altre novelle verghiane - come La Lupa o L’amante di Gramigna - la tecnica dell’esagerazione serve a sottolineare invece la diversità dei personaggi principali e la loro esclusione dalla comunità.

3 Ibidem: “Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto”. Più avanti, il narratore, ricostruendo la “carriera” di Mazzarò, spiega appunto che il suo arricchimento l’ha portato ad impossessarsi di tutte le ricchezze del barone che “l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi”.

4 Ivi, p. 265. Il narratore accumula in paratassi e senza legami di subordinazione logica le sconfinate ricchezze di Mazzarò, come appunto se queste si perdessero a vista d’occhio di fronte a lui.

5 Ivi, p. 264. Il “tarì” era una moneta siciliana di origine araba.

6 Ivi, p. 265: “Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla”.

7 Ivi, p. 266.

8 Ivi, p. 268.