9'

Ammaniti, “Io non ho paura”: riassunto e commento

La produzione letteraria dello scrittore italiano Niccolò Ammaniti si è sempre contraddistinta per le tematiche delle sue storie: emotivamente forti, spesso dichiaratamente pulp, legate alla tradizione di grandi maestri americani come Joe R. Lansdale e Chuck Palahniuk.
Non a caso una delle prime esperienze letterarie di Ammaniti è legata al gruppo dei cosiddetti “Cannibali” un movimento letterario che si è sviluppato in Italia alla fine degli anni ‘90 a partire dall’antologia collettiva Gioventù Cannibale, dove spiccano racconti di autori del calibro di Aldo Nove e Andrea Pinketts.I “Cannibali” vengono etichettati con questo nome dal giornalismo culturale, in virtù del loro stile postmoderno, volto ad evidenziare paure e tensioni di un’Italia ormai affacciata su un ventunesimo secolo che non sa interpretare.
Io non ho paura, romanzo pubblicato da Ammaniti nel 2001, si discosta da parte della sua produzione con una trama estremamente realistica, che affonda le sue radici nel thriller come nel bildungsroman, il classico romanzo di formazione in cui un giovane protagonista si trova a vivere una serie di avvenimenti che lo traghettano dall’innocenza dell’età infantile alla consapevolezza di quella adulta.


Riassunto

Io non ho paura si svolge in Puglia nella torrida estate del 1978, ricordata come una delle più calde degli ultimi decenni. Il protagonista, Michele Amitrano, ha nove anni e vive in un paese estremamente isolato e spoglio, poche case senza neanche una piazza principale. Si tratta di Acqua Traverse, frazione di Lucignano (entrambi luoghi che, in realtà, non esistono, ma che sono rappresentativi di tanti piccoli comuni del nostro sud).
Qui, nel caldo delle ore post-prandiali, Michele si trova con un gruppo di amici con cui gioca nella più totale libertà, lontano dal controllo degli adulti.
La banda è capeggiata da un bambino con atteggiamenti arroganti e dispotici soprannominato Teschio. Teschio vorrebbe che, per il gioco delle penitenze, Barbara, una ragazzina del gruppo goffa e cicciottella restasse senza mutande. Michele, che si contraddistingue fin da subito per avere un carattere franco e coraggioso, decide di evitare l’umiliazione alla sua amica e di prendere su di sé la penitenza. Il suo compito sarà tuttavia più arduo: dovrà arrampicarsi ed entrare al piano superiore, irraggiungibile altrimenti, di un rudere abbandonato.
Michele riesce nell’impresa, ed entra nella vecchia casa diroccata, tuttavia fa un brutto scivolone che lo porta al di sopra di quello che sembra un vasto buco nel suolo. Michele, affacciandosi verso l’interno, vede il corpo di un bambino coperto da un lenzuolo.
Sentendo le voci degli amici scappa dal rudere prima di aver appurato a chi appartenga il corpo e se la persona in questione sia viva o meno. Arrivato a casa, inoltre, i suoi foschi pensieri sembrano rasserenarsi perché il padre, il camionista Pino di ritorno dal Veneto dov’era stato per lavoro, ha portato a lui e alla sorella Maria la riproduzione luminosa di una gondola veneziana.
Tuttavia Michele non riesce a smettere di pensare all’atroce scoperta e, una volta tornato al rudere scopre che si tratta di un bambino della sua stessa età: è incatenato, assetato e sporchissimo.
Michele fa amicizia con il ragazzino, Filippo, e in ogni momento libero cerca di andare a trovarlo e passare del tempo con lui. Quando capisce che, in qualche modo, suo padre è coinvolto nella questione, inizialmente fantastica che possa trattarsi di un fratello nascosto per qualche motivo ma poi, trovandosi a dover convivere con Sergio, amico di Pino trasferitosi a casa loro senza un valido motivo, e vedendo alla televisone un servizio sul rapimento di un bambino di una ricca famiglia del nord Italia, tale Filippo Carducci, e il messaggio della madre del bambino, che supplica i rapitori di liberarlo, capisce che il padre è complice di un rapimento con fini di estorsione di denaro.
Michele, sconvolto dalla scoperta, ha una pessima idea: si fida del suo migliore amico, Salvatore, a cui racconta l’accaduto. Inutile dire che Salvatore non ha nessuna intenzione di tenere per sé una verità così spaventosa e ne informa immediatamente gli adulti.
Michele, dopo aver parlato con Salvatore, torna a trovare Filippo e prova anche a farlo camminare fuori dalla buca: ma in quel momento viene scoperto da uno degli altri rapitori, Felice. Michele viene dunque violentemente sgridato da Pino, che gli vieta di rivedere Filippo che, in caso contrario, morirà. Per sicurezza, in ogni caso, i rapitori decidono di trasferire Filippo in un altro posto. Michele riesce a scoprire attraverso Salvatore la località in cui si trova, ma non il luogo esatto.
La notte stessa però, ascoltando le discussioni degli adulti, scopre che evidentemente il rapimento non sta sortendo gli effetti sperati e che suo padre e gli altri uomini hanno deciso di uccidere Filippo. Così capisce di non poter aspettare e scappa di casa: fortunosamente e facendosi male a una caviglia, grazie alle indicazioni di Salvatore, desideroso di riguadagnarsi la fiducia dell’amico appena perduta, riesce a trovare la buca dove è stato nascosto Filippo. Il bambino, ormai molto debole e prossimo al collasso, non riesce neanche a muoversi, così Michele deve aiutarlo ad uscire dalla fossa.
A causa della caviglia dolorante, però, Michele si trova ancora dentro la fossa quando sopraggiunge suo padre che, imbracciato il fucile, spara credendo di colpire Filippo. Il colpo prende Michele alla gamba, causandogli una grave ferita che potrebbe portalo al dissanguamento.
Il romanzo così si chiude con Pino che, piangendo, porta tra le braccia il figlio verso la polizia che si sta avvicinando a sirene spiegate.

Commento

Io non ho paura si apre su un’estate di provincia, un’estate che per il protagonista, Michele Amitrano, non mostra nessun segno premonitore della serie di dolorosi eventi che, nascosti dietro una casa diroccata, aspettano di assalirlo a sua insaputa.
La vita di Michele, infatti, è uguale a quella di qualsiasi altro ragazzino del sud Italia che, cresciuto in un piccolo comune in una zona desolata, trascorre le lunghe e assolate giornate estive trascindandosi con gli amici in giochi più o meno innocenti, mentre gli adulti, all’ombra delle case, si preoccupano di come arrivare ancora una volta a fine mese. L’infanzia di Michele, dunque, non è l’infanzia dorata di un ragazzino benestante di città: si trova a contatto con i vasti spazi brulli della campagna pugliese, è libero di muoversi lontano dagli occhi e dal controllo dei genitori e, sempre in virtù di questa libertà, si è trova molto presto a dover discernere da solo cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Il racconto di Ammaniti, dunque, prende le mosse da un personaggio già formato nella sua psicologia, che ha già ben chiaro quali siano le sue priorità e che posto occupi nel mondo, seppure trovandosi limitato, come normale, ad un universo ancora infantile, protetto, in qualche modo, dalla piccola età di chi vi partecipa. Questa risolutezza, questo innocente ma consapevole senso di giustizia, Michele lo mostra al momento di aiutare una compagna di giochi in difficoltà, ma non sa che in un batter d’occhio quella stessa decisione condurrà a una catena di eventi che metterebbero in seria difficoltà anche le lucide valutazioni di un adulto.
Al coraggio e al senso di giustizia di Michele, che saranno fondamentali per lo svolgimento della vicenda, si affianca un altro sentimento, che invece risulterà schiacciato dagli eventi. Si tratta della fiducia: Michele ha fiducia in suo padre, che vede poco per colpa di quel lavoro che lo porta a correre con il suo camion su e giù per l’Italia, ma ha anche fiducia nei confronti del suo migliore amico Salvatore, perché qualcuno con cui giochi da una vita intera, per quanto breve, non può tradirti.
Il mondo affettivo di Michele viene dunque nel corso del romanzo messo completamente sottosopra e l’emotività del ragazzino finisce con l’essere salvaguardata proprio da colui che, inconsapevolmente, è causa dello sconvolgimento della vita di Michele. Si tratta di Filippo, che viene da un mondo diverso da quello del protagonista, perché ha la vita ordinata e piena di possibilità di un bambino benestante cresciuto in una città del nord. Tuttavia nonostante le differenze e nonostante Filippo sia a tutti gli effetti un prigioniero, debole, affamato, spaventato dall’improvvisa lontananza dei suoi genitori e della sua quotidianità, i due ragazzini riescono a trovare un terreno comune. È quello del bisogno, certo, ma anche quello della creazione fantastica e del gioco. I due bambini, creando un mondo privato di legami e invenzioni, combattono a loro stessa insaputa quella realtà adulta e cinica che li sta inesorabilmente inglobando.
La terra in cui Michele cresce, infatti, è un luogo brutale e difficile e improvvisamente questa stessa brutalità investe le figure adulte che dovrebbero contenerla. Certo, bisogna fare una distinzione per il padre di Michele, la cui scelta criminale pur dettata dalla povertà non è giustificabile, ma che ama il figlio più di ogni altra cosa e, soprattutto, più di sé stesso, come si evince dal finale in cui si offre spontaneamente alla polizia nella speranza di salvare il figlio. Ma pur mettendo la vicenda personale di Pino Amitrano tra perentesi, è pur vero che egli sceglie, con altri adulti senzienti, di rapire un bambino. E questi banditi a cui Pino è legato, che sono le persone del paese, persone che Pino conosce nella loro quotidianità priva di imprese, sono rappresentati come maschere terrificanti, simulacri di una miseria la cui ultima manifestazione è una cieca volontà di vendetta sociale.
La vicenda che si trova a vivere Michele, dunque, è quella del passaggio dall’infanzia all’età adulta, un passaggio per cui il ragazzino dimostra di essere più che mai pronto ma che tuttavia non può che essere traumatico e il prezzo della maturità è un distacco brutale dalla dimensione degli affetti e della quotidianità familiare, un distacco che non potrà in alcun modo essere colmato.