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“L’isola” di Ungaretti: parafrasi e commento

Introduzione

 

Composta nel 1925, L’isola entra a far parte del Sentimento del Tempo (1933), libro che segna una fondamentale svolta nella carriera poetica di Giuseppe Ungaretti. Il poeta abbandona lo stile franto ed essenziale dell’Allegria e approda a una sorta di classicismo oscuro e barocco, che farà scuola presso i poeti ermetici. L’isola è quasi un manifesto della nuova maniera. L’atmosfera della poesia è fin da subito misteriosa e rarefatta: lo spazio in cui si muove un protagonista senza nome, in terza persona, è irrealistico e indefinito. Il tempo verbale dominante è il passato remoto, attraverso cui il poeta crea un’effetto di sospensione mitica.

Il testo possiede una scarna struttura narrativa: il protagonista approda sull’isola e si inoltra nel buio della vegetazione; è angosciato dal rumore di un uccello che spicca il volo; subito dopo si imbatte in una ninfa che dorme abbracciata ad un albero. La visione sembra poi chiarirsi: il protagonista giunge in un prato che ospita fanciulle addormentate, delle pecore e un enigmatico pastore. Lo stile, fortemente analogico e polisemico, è basato su immagini che trascorrono una nell’altra in una specie di continua metamorfosi. Al di là dell’atmosfera onirica e antirealistica, l’ignoto personaggio sembra camminare in un topos letterario della tradizione classica, quello del locus amoenus campestre. La poesia richiama gli elementi tipici di un quadretto arcade (secondo una dichiarazione di Ungaretti stesso, il paesaggio trasfigurato sarebbe quello di Tivoli): selve immancabilmente ombrose, ninfe, pecore e pastore. Ma Ungaretti rilegge il modello alla luce della poesia più recente, come ad esempio quella dei simbolisti francesi Stéphane Mallarmé (1842-1898) e Paul Valéry (1871-1945). Da qui viene il senso di arcano mistero di cui è caricato il paesaggio bucolico. Il componimento ha forse anche un significato metapoetico, ovvero di riflessione sulla letteratura stessa: Ungaretti abbraccia infatti la tradizione letteraria, che prima (all’epoca degli esordi) pareva un vano “simulacro” e poi viene riconosciuta come “fiamma vera” (v. 12), cioè come alimento fecondo dell’ispirazione.

Il clamoroso ritorno alla tradizione, che permea tutto Sentimento del tempo, viene così giustificato da Ungaretti: “Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra [...] erano tutte tese a ritrovare un ordine”. Il lessico de L’isola è classicheggiante e semanticamente vago, la sintassi è involuta e aulica, l’impianto retorico barocco e virtuosistico, la metrica decisamente tradizionale rispetto ai versicoli de L’Allegria. La svolta riguarda anche temi e funzioni della poesia, come spiega il critico Pier Vincenzo Mengaldo:

Venuta meno la naturale compartecipazione a un’esperienza “unanime”, Ungaretti, che agisce adesso in una sorta di vuoto storico, deve obiettivare la propria biografia in “emblemi eterni”, favole e miti, ora idillici come nell’arcadica Isola ora tenebrosi.

Ungaretti non è più insomma il poeta-soldato che scrive dal doppio fronte della guerra e del suo travaglio esistenziale (come in Fratelli o in Mattina); si volge ora alla cultura e alla tradizione per trasfigurare poeticamente le avventure interiori del proprio io.

Tra il primo e il secondo Ungaretti esistono però anche delle continuità che non vanno ignorate. La tensione verso una poesia pura e assoluta, quasi metafisica, sopravvive in un diverso contesto tematico e stilistico. Le due maniere, in apparenza così diverse da parere opposte, celano dei meccanismi comuni: dietro alla metrica regolare e alla patina classicheggiante della lingua, lo stile del Sentimento è ancora basato sull’“enfatizzazione delle pause e sul peso della parola isolata” (è sempre Mengaldo che parla) tipici de L’Allegria.

Metrica: versi liberi, in prevalenza endecasillabi, novenari e settenari. La sintassi, piuttosto involuta, è prevalentemente ipotattica e ricca di anastrofi e iperbati, spesso spezzati dall’enjambements. Inversioni e inarcature, oltre a costituire un segnale della nuovo stile “neoclassico” di Ungaretti, generano un effetto di “legato” (come se le parole fossero intrecciate tra loro) che contribuisce alla qualità preziosa e metamorfica delle immagini (si vedano ad esempio i vv. 13-15).

  1. A una proda ove sera era perenne
  2. di anziane selve assorte 1, scese,
  3. e s'inoltrò
  4. e lo richiamò rumore 2 di penne
  5. ch'erasi sciolto dallo stridulo
  6. batticuore 3 dell'acqua torrida,
  7. e una larva (languiva
  8. e rifioriva 4) vide;ù
  9. ritornato a salire vide
  10. ch'era una ninfa 5 e dormiva
  11. ritta abbracciata a un olmo.
  12. In sé da simulacro a fiamma vera
  13. errando 6, giunse a un prato ove
  14. l'ombra 7 negli occhi s'addensava
  15. delle vergini 8 come
  16. sera appiè degli ulivi;
  17. distillavano 9 i rami
  18. una pioggia pigra di dardi,
  19. qua pecore s'erano appisolate
  20. sotto il liscio tepore 10,
  21. altre brucavano
  22. la coltre 11 luminosa;
  23. le mani del pastore 12 erano un vetro
  24. levigato da fioca febbre.
  1. Giunse ad una riva che era sempre in ombra
  2. per la presenza di antiche vegetazioni silenziose,
  3. E si inoltrò nei boschi
  4. e richiamò la sua attenzione il battito d’ali
  5. di un uccello alzatosi da uno specchio d’acqua calda
  6. increspatosi per il movimento,
  7. e vide una presenza vaga (appassiva
  8. e rifioriva);
  9. ritornato a salire vide
  10. che era una ninfa e dormiva
  11. in piedi abbracciata a un olmo.
  12. Vagando dentro di sé e passando da parvenza illusoria
  13. alla verità della fiamma, giunse in un prato
  14. dove l’ombra si raccoglieva
  15. negli occhi delle fanciulle come fa
  16. il buio della sera ai piedi degli ulivi;
  17. i rami filtravano
  18. i raggi solari simili a una pioggia lenta e rada.
  19. Qui si erano addormentate delle pecore
  20. sotto il tepore uniforme della luce solare.
  21. Altre pecore brucavano
  22. il manto d’erba illuminata:
  23. le mani del pastore erano lisce e lucenti come vetro
  24. levigato da una febbre debole.

 

Bibliografia:

G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano, Mondadori, 1969.
P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978.
R. Luperini - P. Cataldi - F. D’Amely, Poeti italiani: il Novecento, Palermo, Palumbo, 1994.
G. Baldi - S. Giusso - M. Razetti - G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. 3, tomo 2,  Dal Primo Novecento ad oggi,
Torino, Paravia, 1995.
C. Segre - C. Ossola, Antologia della poesia italiana, Novecento, Torino, Einaudi, 1999.

1 L’approdo all’isola è caratterizzato da oscurità e silenzio. Da notare la complessità retorica con cui il poeta fornisce questi semplici dati ambientali: “sera perenne” (v. 1) è un’iperbole; la vegetazione viene quasi personificata (“selve assorte”, v. 2) per farne risaltare l’atmosfera silenziosa.

2 richiamò rumore: Oltre a questa allitterazione, da notare l’insistenza diffusa in questi versi sul suono consonantico - r - (almeno fino a “larva” del v. 7).

3 stridulo batticuore: l’uso spinto del linguaggio analogico genera qui ambiguità. Lo “stridulo batticuore” rappresenta metaforicamente l’incresparsi dello specchio d’acqua da cui si è alzato in volo l’uccello. Contemporaneamente, “stridulo” richiama il rumore acuto delle ali e “batticuore” la condizione d’angoscia del poeta. L’espressione è anche sinestetica, perché rappresenta un movimento visivo (le onde concentriche sull’acqua) attraverso una suggestione in primo luogo sonora (il batticuore).

4 languiva e rifioriva: i due verbi hanno significato antitetico. Languire significa “essere privo di forze, in uno stato di prolungato di abbattimento fisico”. Viene utilizzato anche in riferimento alla vegetazione e ai fiori, col significato di “appassire, avvizzire”.  La parentesi, di non facile interpretazione, potrebbe riferirsi al protagonista della poesia, che viene consolato dalla visione di una presenza umana (la “larva”) e quindi “rifiorisce”, uscendo dalla precedente condizione di smarrimento e solitudinte. Il forte analogismo di questo passaggio è potenziato dall’enjambement, dalla lentezza ritmica dei due imperfetti e dai richiami fonici con gli adiacenti “larva” (v. 7) e “vide” (v. 8).

5 Divinità dei boschi tipica della poesia classica.

6 Altro passo di complessa interpretazione, per la polisemia e l’uso insistito dell’analogismo. Le barriere tra realtà interiore e ambiente esterno sono infrante: il protagonista erra dentro di sé trasferendo nell’interiorità psichica la natura delle visioni appena avute sull’isola (le selve, il frullo d’ali, la ninfa). Grazie a una specie di scatto spirituale, egli abbandona i “simulacri” conferendo un nuovo valore di realtà a se stesso e alle immagini tra cui si trova a vagabondare. Questo passaggio si presta anche a un’interpretazione erotica: in questo caso sarebbe la visione della ninfa a risvegliare la passione nel protagonista, facendogli abbandonare le immagini della fantasia (i “simulacri”) per la “fiamma” della passione reale.

7 Involuta perifrasi per descrivere le fanciulle addormentate. L’“ombra”, che richiama la “sera perenne” del v. 1, fa parte degli elementi letterari con cui si rappresentano tradizionalmente luoghi campestri o boschivi.

8 negli occhi s’addensava | delle vergini: forte iperbato. “Vergini” vale, secondo l’uso letterario, per “fanciulle” (qui probabilmente altre ninfe).

9 distillavano: da notare come il verbo prepari la metafora acquatica (i raggi di luce come goccie di pioggia) poi sviluppata nel verso successo.

10 liscio tepore: sinestesia riferita all’effetto dei raggi del sole. Contribuisce all’atmosfera soffusa che caratterizza il prato della seconda strofa.

11 coltre: letteralmente “coperta”, Qui indica il prato, nelle aree colpite però dai raggi del sole

12 Il pastore che chiude il “quadretto” bucolico è caratterizzato in maniera virtuosistica e surreale: le mani del pastore diventano un vetro (attraverso una metafora) perché rese lisce (“levigate”) dal sudore provocato da una febbre “debole” (“febbre fioca” è sinestesia). Ungaretti inserisce il pastore nei complessi giochi di luce dei versi precedenti. Attraverso questa figura enigmatica e scorciata - solo le mani sono in evidenza - la poesia termina in modo emblematico e sospeso.