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Luigi XIV e l’assolutismo francese

L’erede di Rocroi e di Richelieu

Durante la Guerra dei Trent’anni, il 19 maggio 1643, nei pressi di Rocroi, nelle Ardenne, l’esercito francese di Luigi di Borbone - il “principe di Condé” citato nell’incipit del secondo capitolo dei Promessi sposi - inflisse una dura sconfitta alle truppe spagnole di Francisco de Melo: la clamorosa vittoria, ottenuta a spese dei celebri tercios iberici 1, assunse un forte significato simbolico, sancendo quasi il passaggio di consegne tra la declinante potenza spagnola e l’astro nascente della Francia.

Un’altra coincidenza contribuì però a mettere in evidenza la data di Rocroi: cinque giorni prima della battaglia era morto il re di Francia Luigi XIII (1601-43), lasciando il regno al figlio primogenito Luigi (1638-1715), di quattro anni, e la reggenza alla consorte, Anna d’Austria (1601-66). La morte del sovrano seguiva, dopo nemmeno sei mesi, quella del suo onnipotente primo ministro, il cardinale Armand Jean du Plessis, duca di Richelieu (1585-1642), il quale nei due decenni precedenti aveva operato per rafforzare la monarchia francese, ponendo le basi dell’assolutismo regio di Luigi XIV.

Luigi XIII (1601-1643) - Richelieu (1585-1642).

Per fare questo, Richelieu aveva agito soprattutto in tre direzioni:

  • aveva abbattuto la potenza militare degli ugonotti, togliendo loro con la forza le piazzeforti e i privilegi militari concessi dall’Editto di Nantes; culmine di questa lotta fu la presa di La Rochelle, dopo un lungo assedio, nel 1628;
  • aveva imposto la supremazia dell’autorità reale, frenando le spinte centrifughe della grande nobiltà, e aveva esercitato un più stretto controllo sull’amministrazione provinciale grazie agli “intendenti”, commissari di nomina regia dotati di pieni poteri, inviati nelle varie parti del regno per riscuotere i tributi, amministrare la giustizia e mantenere l’ordine;
  • aveva aumentato la tassazione, per fare fronte alle spese crescenti richieste dalla costruzione della flotta e dalla partecipazione alla guerra dei Trent’anni, reprimendo duramente le sollevazioni anti-fiscali che ne erano derivate.

Le “Fronde” (1648-1653)

La politica di accentramento di Richelieu fu portata avanti dal suo successore, il cardinale Giulio Mazzarino (1602-61), ma le forti ostilità che essa aveva già provocato si ripresentarono in diversi ceti sociali, complice anche la giovane età di Luigi. Ne scaturì una stagione di instabilità e di lotte contro la monarchia che è passata alla storia con il nome di Fronda 2.

Giulio Mazzarino (1602-1661) - Anna d’Austria (1601-1666).

A innescare queste contestazioni fu il Parlamento di Parigi, coadiuvato dalle altre corti sovrane della capitale (come la Camera dei conti, il Gran consiglio e la Corte degli aiuti), che costituivano il baluardo della nobiltà di toga 3. Nel maggio 1648 il Parlamento rifiutò di ratificare sette nuovi editti fiscali voluti da Mazzarino e si riunì insieme alle altre corti cittadine per deliberare alcune riforme fiscali e giudiziarie. Tra giugno e luglio furono così elaborati ventisette articoli che subordinavano l’approvazione di nuove tasse al veto parlamentare e pretendevano la revoca degli intendenti. In un primo momento, la reggente e il cardinale dovettero piegarsi alla volontà del Parlamento, ma alla fine di agosto, tentando di riguadagnare il terreno perduto, i due reali fecero arrestare alcuni capi del partito parlamentare. Per tutta risposta la popolazione e le milizie borghesi di Parigi insorsero ed eressero delle barricate, costringendo la corte ad abbandonare la città e a riparare a Saint-Germain. Dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione, all’inizio del 1649 si giunse allo scontro armato. Parigi, favorevole al Parlamento, fu assediata duramente da gennaio a marzo e costretta a patire la fame e i rigori dell’inverno, finché agli inizi di aprile le forze parlamentari e la corona trovarono un accordo di compromesso.

Fu però solo una tregua. La sollevazione della capitale mise in subbuglio anche le province e la debolezza della corona, alla quale sembrava possibile strappare delle concessioni, stimolò nuove rivendicazioni da parte dei nobili. Dalla fronda parlamentare (1648-1649) si passò così a quella aristocratica (1650-53), animata soprattutto dal principe di Condé, il quale aveva in precedenza sostenuto militarmente Mazzarino contro il Parlamento senza però ottenere i benefici sperati. Molti principi, con le rispettive clientele provinciali, aderirono alla fronda e la Spagna, perennemente in guerra con la Francia, non fece mancare il proprio sostengo ai frondeurs. Nel marzo 1651, dopo alterne vicende, Mazzarino fu costretto a fuggire dalla Francia, mentre Luigi e la reggente restarono in balia del Parlamento parigino, che aveva avanzato nuove pretese, e di Condé. Lo strapotere di quest’ultimo gli alienò però il sostegno di molti: Condé stipulò allora un accordo con la Spagna, promettendole sostegno nella conquista di alcune piazzeforti francesi in cambio delle risorse economiche che gli servivano a portare avanti la sua lotta personale contro la corona. Ne seguì un altro anno di assedi e scontri militari: il maresciallo Turenne, che aveva messo la sua spada al servizio di Luigi, ebbe la meglio sulle truppe di Condé e di suo fratello, Armando di Borbone-Conti, e anche Parigi, i cui principali notabili desideravano ormai la pace, fu costretta a piegarsi. Così, nell’ottobre 1652 il re poté rientrare nella capitale, dove fece decadere i titoli di Condé e promulgò un atto che vietava da allora in poi alle corti sovrane di inserirsi nelle questioni relative all’amministrazione dello Stato. A suggellare la vittoria della monarchia, nel febbraio 1653 Mazzarino tornò trionfalmente a Parigi.

 

Luigi XIV e le riforme amministrative

 

Luigi XIV nel 1661 (dipinto da Charles Le Brun).

Raggiunta la maggiore età (all’epoca, tredici anni) nel 1651 e solennemente incoronato a Reims nel giugno 1654, Luigi XIV continuò per diversi anni il suo apprendistato di monarca. Nel 1660 sposò Maria Teresa d’Austria (1638-83), figlia del re di Spagna Filippo IV, come previsto dal Trattato dei Pirenei (7 novembre 1559), che poneva fine alla decennale guerra tra i due regni.

Tra le tante lezioni ricevute, quella della Fronda rimase però la più istruttiva per il giovane sovrano: le minacce da parte della popolazione parigina a cui fu personalmente esposto, le fughe notturne, gli intrighi di corte, la ribellione delle province, la debolezza della corona erano fenomeni che Luigi XIV non voleva vedersi ripetere. Innanzitutto il sovrano volle porre direttamente nelle proprie mani le redini del governo: alla morte di Mazzarino, nel marzo 1661, decise di non rimpiazzarlo e di abolire del tutto l’incarico di primo ministro, con una decisione improvvisa e inattesa che stupì la corte. Da quel momento in poi, tutti i ministri sarebbero stati scelti solo dal sovrano, avrebbero dovuto dipendere da lui e rispondere solo a lui. Questo ne limitava l’autonomia rispetto al re, ma ne aumentava il potere rispetto al regno, perché ogni ministro sarebbe stato “sovrano” nel suo ambito, costituendo un’emanazione della suprema e assoluta autorità regale. Per limitarne l’autonomia e rendere ben chiaro che i ministri erano lo strumento e non la fonte del potere, Luigi XIV li scelse di preferenza tra le fila della borghesia e della piccola nobiltà.

Luigi XIV s’impegnò anche ad accentrare e verticalizzare l’amministrazione dello Stato, di cui il re doveva essere il centro pensante e dirigente 4; sotto di lui i ministri, riuniti nel Consiglio, recepivano e attuavano le sue disposizioni, mentre a livello locale il suo potere e la sua presenza erano rappresentati fisicamente dagli intendenti. Come il Sole dava luce e moto a tutti i pianeti, così il Re Sole (in francese, le Roi Soleil) doveva essere la fonte prima e unica del potere, dettando la sua volontà ai ministri e ai loro satelliti, assimilabili ai pianeti che vi ruotavano intorno.

Non bisogna sovrastimare i risultati delle riforme di Luigi XIV: i suoi sforzi, pur efficaci, non giunsero alla realizzazione di uno Stato centralizzato e burocraticamente uniforme come quelli moderni. La Francia d’Antico regime restava un paese con giurisdizioni diverse e sovrapposte, poteri e autorità concorrenti, autonomie e regimi giuridici e fiscali che cambiavano da regione a regione, da città a città, da ceto a ceto. Ciò che realmente cambiò, nella sua natura istituzionale e nella sua rappresentazione collettiva, fu la monarchia: fino ad allora il re era stato soprattutto giudice, legislatore e condottiero; con le nuove disposizioni il re diventava anche il supremo amministratore dello Stato. Con Luigi XIV il re non si limitava più a regnare, ma governava, e, nella fusione di queste due funzioni, risiedeva il cuore dell’assolutismo monarchico.

 

Costruire l’assolutismo: la reggia di Versailles

 

La reggia di Versailles nel 1688.

Per poter realizzare il suo ambizioso progetto, Luigi XIV doveva vincere le resistenze dell’aristocrazia. La Fronda nobiliare aveva mostrato quanto fossero stretti i rapporti tra le grandi casate e i loro possedimenti in provincia: i nobili non erano dei semplici proprietari terrieri, ma dei sovrani in miniatura, i quali, per diritto feudale, governavano le popolazioni delle loro terre. Nelle province, a centinaia di miglia dalla corte, erano i nobili a incarnare la sovranità ed era a loro, prima che al re e ai suoi rappresentanti, che andava la fedeltà e l’obbedienza delle popolazioni locali.

Per spezzare il legame tra popolo e aristocrazia, Luigi XIV amplificò enormemente il potere attrattivo della corte. Essa doveva diventare il simbolo dello splendore e della potenza della monarchia: la soluzione migliore, dunque, era identificarla con un luogo fisico in grado di darle visibilità e ulteriore prestigio. Per allontanare la corte dalle insidie di Parigi, Luigi XIV decise di costruire una reggia enorme e sontuosissima in un terreno paludoso ad alcune decine di chilometri dalla capitale, dove il padre aveva fatto costruire un casino di caccia: Versailles. Dal 1664 iniziò una colossale impresa di costruzione che avrebbe prodotto la reggia più sfarzosa d’Europa. Nel 1682 Luigi XIV vi fissò stabilmente la sua residenza e vi richiamò i migliori artisti, musicisti, letterati francesi e stranieri, facendo di Versailles un enorme centro di divertimento e di svaghi. Prendere parte, come spettatore o attore, agli eventi di corte, rigidamente codificati e ritualizzati, divenne un privilegio grandemente ambito dai nobili e Luigi XIV seppe dispensarlo con accortezza, alimentando invidie e rivalità. Imprigionata nella “gabbia dorata” di Versailles, l’aristocrazia fu così costretta a risiedere lontano dalle proprie terre, allentando i rapporti con le popolazioni locali e lasciando campo libero all’azione degli intendenti, mentre le spese sempre più elevate che essa doveva sostenere per tenersi al passo con la moda cortigiana - carrozze, abiti, cavalli, giochi d’azzardo - finirono per fiaccarne la ricchezza e il potere e la spinsero spesso a indebitarsi con lo stesso sovrano.

 

L’economia nel segno di Colbert

 

Jean-Baptiste Colbert (1619-83).

Per poter realizzare una simile opera, Luigi XIV aveva bisogno di molto denaro, il cui l’afflusso nelle sue casse reali dipendeva dall’efficacia della politica economica e fiscale. In materia finanziaria, fin dal 1661 egli si affidò a Jean-Baptiste Colbert, vera e propria “eminenza grigia” del Re Sole fino alla sua morte, nel 1683. Cresciuto in una famiglia di mercanti e seguace delle dottrine mercantilistiche, Colbert era convinto che la ricchezza di un paese dipendesse dalla quantità di moneta, cioè di metalli preziosi, che circolava e si conservava al suo interno; bisognava quindi far affluire quanta più ricchezza verso la Francia, favorendo il più possibile le esportazioni e diminuendo le importazioni, che drenavano all’estero le risorse monetarie del paese.

Per raggiungere questi scopi, Colbert varò un vasto programma economico-commerciale (che passerà alla storia come “colbertismo”), incentratosul protezionismo e sull’interventismo statale. Da un lato, innalzò i dazi doganali, dall’altro, cercò di stimolare in ogni modo il commercio, costruendo nuove vie di comunicazione interne (strade e soprattutto canali), potenziando i porti e la marina e incoraggiando la formazione di compagnie commerciali e coloniali. Ma per esportare occorreva produrre dei beni che fossero richiesti sul mercato estero: furono così istituite delle manifatture di Stato (come la fabbrica di arazzi dei Gobelins o quella di porcellane di Sèvres) e incentivate quelle manifatture privilegiate che producevano, in regime di monopolio, beni di lusso di grande qualità, da esportare a prezzi molto più elevati.

Da un punto di vista fiscale, Colbert riuscì a razionalizzare e rendere più efficiente la riscossione delle tasse e cercò anche, nei limiti del possibile, di renderle più equilibrate, riducendo ad esempio la taglia, ovvero la principale imposta diretta che pesava prevalentemente sui contadini, e ponendo fine ad alcuni abusi degli esattori.

 

Uniformare e accentrare: la politica religiosa del Re Sole

 

Lo stesso sforzo di accentramento che fu esercitato sul piano amministrativo ed economico, interessò anche lasfera religiosa. Se Luigi XIV non poteva tollerare che vi fosse in Francia un’autorità indipendente dalla sua e ancor meno poteva accettare che una parte dei suoi sudditi professasse un altro Credo. Se gli ugonotti avevano già perso da tempo l’indipendenza politico-militare che garantiva loro l’Editto di Nantes, restavano comunque una minoranza numerosa - composta da circa un milione di persone - e soprattutto sospetta agli occhi del re. La loro visione religiosa era infatti fondata sull’autonomia della coscienza individuale e sul libero arbitrio e le loro comunità erano governate secondo principi sostanzialmente democratici: entrambi questi aspetti mal si conciliavano con la devozione totale che il monarca assoluto esigeva dai suoi sudditi. Dopo le pressioni e le violenze fisiche per costringere i protestanti a convertirsi, poi l’intolleranza religiosa venne legalizzata attraverso determinate norme: con l’Editto di Fontainebleau (15 ottobre 1685), Luigi XIV revocò l’editto di Nantes e abolì la libertà di culto, facendo del cattolicesimo l’unica religione della Francia. Le persecuzioni spinsero circa 200.000 ugonotti ad emigrare in Germania, Inghilterra, Olanda e Svizzera.

Ritornato “re cristianissimo”, Luigi XIV non esitò ad usare il pugno di ferro anche contro Roma, sia per riaffermare il suo controllo sulla Chiesa gallicana, di cui difese le prerogative autonomistiche contro le ingerenze della Santa Sede, sia per veder confermata la sua indipendenza dal Papa nelle questioni temporali, che fu solennemente sancita dal primo dei quattro articoli approvati dall’assemblea del clero francese nel 1682 5. Per quanto  riguardava le cose di questo mondo, il re non aveva ormai altro superiore che Dio stesso: era veramente assoluto, cioè “sciolto” (dal latino absolutus) da ogni vincolo umano.

 

Le guerre di Luigi (1667-1714)

 

Ai fasti del Re Sole non potevano mancare quelli militari. La Francia, saldamente guidata dal suo sovrano, florida economicamente e nazione più popolosa d’Europa (con circa 20 milioni d’abitanti all’epoca), era pronta a imporre la propria egemonia al continente, tanto più che le sue due principali rivali asburgiche, la Spagna e l’Impero versavano in cattive condizioni. Nel 1667, a meno di dieci anni dalla Pace dei Pirenei, si aprì così una nuova stagione di guerre che si sarebbe protratta, con qualche breve pausa, per un cinquantennio.

Il primo conflitto del periodo fu la guerra di Devoluzione (1667-68). Dopo la morte di Filippo IV (1665), Luigi rivendicò in nome della moglie, figlia del re defunto, i Paesi Bassi spagnoli e la Franca Contea; non potendo ottenerli diplomaticamente, li occupò militarmente. Il suo intervento allarmò però la vicina Olanda che si schierò con Inghilterra e Svezia a fianco della Spagna. Luigi XIV preferì allora venire a patti e firmò il Trattato di Aix-la-Chapelle ( conosciuto anche come Trattato di Aquisgrana, 2 maggio 1668), accontentandosi di qualche piazzaforte nelle Fiandre.

L’Olanda repubblicana e protestante costituiva evidentemente un ostacolo ai piani di Luigi, che decise di neutralizzare quanto prima lo scomodo avversario. Si alleò quindi con l’Inghilterra, la Svezia e alcuni principati tedeschi e nel 1672 scatenò la guerra d’Olanda (1672-78). L’Olanda fu quasi interamente occupata dalle truppe francesi, ma Guglielmo d’Orange (1650-1702), che prese il comando politico e militare della repubblica olandese, aprì le dighe e allagò il suo stesso territorio per fermare l’avanzata nemica, ingaggiando una resistenza accanita e disperata. La Spagna e l’Impero si schierarono allora al fianco dell’Olanda e il conflitto si allargò al Mediterraneo. Dopo anni di scontri, il Trattato di Nimega (16 agosto 1678) sancì una vittoria a metà per Luigi XIV: egli poté rettificare il confine nord-orientale, annettere la Franca Contea e mantere l’occupazione della Lorena, ma non riuscì a piegare la potenza olandese, che uscì anzi rafforzata dalla dura prova.

Dopo un breve conflitto con la Spagna per delle questioni confinarie (guerra delle Riunioni, 1683-84), le ostilità ripresero con la guerra della Lega d’Augusta (1688-97). Una vasta coalizione anti-francese, animata da Guglielmo d’Orange (che nel 1688 diventò anche re d’Inghilterra in seguito alla Glorious revolution) e formata da Spagna, Impero, Inghilterra, Olanda, Svezia e Savoia, attaccò militarmente Luigi XIV per strappargli le conquiste territoriali precedentemente ottenute. La Francia fu costretta a difendersi su molti i fronti, anche in quello nord-americano, ma alla fine riuscì a spuntarla. Il Trattato di Ryswick (settembre-ottobre 1697) non sancì un vero vincitore: Luigi XIV ottenne parte dell’Alsazia, ma fu costretto a sgomberare la riva destra del Reno, a restituire diverse piazzeforti alla Spagna e la Lorena al suo duca e soprattutto a riconoscere la legittimità della successione di Guglielmo d’Orange al trono inglese.

L’ultimo conflitto che si sviluppò durante il regno di Luigi fu anche il più lungo e il più significativo: la guerra di Successione spagnola (1701-14), che seguì alla morte senza eredi di Carlo II di Spagna (1700) e vide la Francia ancora una volta contrapposta all’Impero, all’Inghilterra e all’Olanda. Tra 1713 e 1714 i trattati di Utrecht e Rastatt posero fine a una guerra che aveva ormai logorato tutte le parti belligeranti e fissarono un nuovo status quo europeo: la corona spagnola passò a Filippo V, nipote di Luigi XIV, ma a patto che restasse sempre divisa da quella francese; gli Asburgo d’Austria ereditarono i possedimenti spagnoli in Italia e nelle Fiandre, mentre l’Inghilterra rafforzò la sua potenza navale e coloniale ottenendo Gibilterra e Minorca e diversi possedimenti francesi in Nord America.

 

Un bilancio

 

Colbert presenta a Luigi XIV i membri dell’Académie des sciences nel 1667.

Il 1° settembre 1715 Luigi XIV si spense a Versailles. Con lui si chiudeva quello che Voltaire definì nel 1751, in una sua celebre opera, Le Siècle de Louis XIV. Quale bilancio si poteva trarre da questo regno durato settantadue anni?

Indubbiamente sotto Luigi XIV la Francia conobbe una straordinaria stagione di crescita economica, di fioritura delle arti e della letteratura, di sostanziale stabilità politica e guadagnò, seppur a prezzo di guerre sanguinose ed economicamente dispendiose, una compattezza e un’ampiezza territoriale fino ad allora sconosciute. L’accentramento assolutistico contribuì a razionalizzare, almeno in parte, la struttura statale, pur rendendo l’amministrazione strettamente dipendente dalle capacità personali (nonché dalla salute fisica) di un sovrano factotum, un limite che si fece sentire durante la vecchiaia di Luigi. Allo stesso tempo, però, la sua politica di potenza, all’estero, e di glorificazione personale, in patria, comportarono delle spese sempre più insostenibili, che erosero le finanze statali, vanificarono in buona parte i risultati positivi ottenuti da Colbert e richiesero una politica fiscale sempre più severa e oppressiva, che non mancò di sollevare proteste e malcontenti. Lo sfarzo e i costi di Versailles contrastavano in maniera sempre più stridente con la miseria dei contadini e delle masse popolari, sulle quali pesava economicamente una nobiltà sempre più oziosa e improduttiva. Gli stessi obiettivi di grandezza perseguiti con le armi per mezzo secolo non furono mai pienamente raggiunti e la Francia profuse sangue e denaro per ottenere un primato europeo che le sfuggì sempre e non le fu mai riconosciuto dalle altre potenze, mentre contribuì indirettamente al rafforzamento di una nuova rivale, l’Inghilterra. Alla morte di Luigi XIV, insomma, la Francia aveva già lasciato alle spalle il momento di maggior splendore e cominciava a mostrare segni di debolezza, portando già in corpo i germi della crisi che l’avrebbe minata nel corso del Settecento, per culminare poi nella Rivoluzione del 1789

1tercios erano le principali unità amministrative e tattiche dell’esercito spagnolo, formate da alcune migliaia di soldati, sia picchieri sia moschettieri; si affermarono sui campi di battaglia europei agli inizi del XVI secolo, infliggendo pesanti sconfitte alle cavallerie feudali, e accompagnarono l’ascesa e il declino della potenza militare spagnola.

2 Il termine deriva dal francese fronde, cioè “fionda”, l’arma con cui i monelli parigini sfidavano l’autorità costituita.

3 Si definiva nobiltà di toga (noblesse de robe, in francese), per distinguerla dalla nobiltà di spada, quella parte della nobiltà che aveva ottenuto il proprio titolo acquistando ed esercitando delle cariche amministrative o giudiziarie; si trattava quindi di una nobiltà più recente, uscita spesso dai ranghi della borghesia, ma dotata di risorse economiche e con un forte spirito di corpo.

4 A Luigi XIV viene tradizionalmente attribuita la frase “L’Etat c’est moi” (ovvero: “Lo Stato sono io”), che riassume efficacemente la sua visione della monarchia assoluta, anche se si tratta probabilmente di una frase apocrifa.

5 Il primo articolo della Dichiarazione del 1682 afferma che il Papa ha un’autorità esclusivamente spirituale e che i sovrani non sono sottomessi all’autorità della Chiesa nelle questioni temporali. La Dichiarazione fu ripetutamente condannata dalla Chiesa romana ma rimase valida in Francia.

Testo su Storia moderna

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