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Thomas Mann, “La morte a Venezia”: riassunto della trama e analisi

Introduzione

 

Thomas Mann pubblica La morte a Venezia (nell’originale: Der Tod in Venedig) nel 1912. La novella è indubbiamente uno dei testi più interessanti del corpus delle opere di Mann (tra cui I Buddenbrook e La montagna incantata): in essa possiamo riscontrare facilmente tutte le tematiche care al suo autore: la decadenza della società aristocratico-borghese, il conflitto tra arte e realtà materiale, la metafora della “malattia” per indagare la crisi dell’uomo contemporanea. Il testo è inoltre ricco di rimandi ai dialoghi platonici (in particolare il Simposio) e alla teoria nietzschiana sul conflitto tra Apollo e Dioniso nella Nascita della tragedia.

Il racconto lungo viene redatto dopo un soggiorno con la moglie a Venezia, dove lo scrittore tedesco aveva avuto modo di conoscere ed osservare un ragazzino che sarà poi d’ispirazione per il personaggio di Tadzio. Si tratta probabilmente del barone polacco Wladislaw Moes (1900-1986), all’epoca in vacanza con la madre e le sorelle al lido di Venezia. Per quanto riguarda il protagonista, lo scrittore von Aschenbach, molti critici lo identificano con il compositore Gustav Mahler (1860-1911), anche se quest’ipotesi non è confermata. Altri identificano il protagonista nel letterato omosessuale August von Platen (1796-1835). Da La morte a Venezia il regista Luchino Visconti trasse una celebre versione cinematografica nel 1971.

 

Riassunto

 

Gustav von Aschenbach, nobile e scrittore tedesco di cinquant’anni, si trova a passeggiare nei pressi della sua residenza a Monaco di Baviera. L’uomo, ormai vedovo e all’apice di una prolifica carriera a cui ha dedicato tutti i suoi sforzi e che gli è valsa pure il titolo aristocratico, sta attraversando un periodo di stanchezza fisica e di crisi creativa. Mentre sosta nei pressi di un cimitero, osservando uno strano forestiero che sembra comparso dal nulla, avverte un richiamo al viaggio e all’avventura che credeva sopito da diversi anni. Aschenbach sbriga così gli ultimi impegni letterari e organizza la sua partenza nel minor tempo possibile. Si dirige verso l’Istria, ma anche qui, complice il tempo infelice, la stessa irrequietezza interiore che lo ha fatto partire dalla Germania porta Aschenbach a spostarsi dopo solo pochi giorni a Venezia. Fin dal viaggio in traghetto da Pola a Venezia intorno ad Aschenbach si svolgono scene grottesche e strane, quasi fossero un oscuro presagio di quanto avverrà. L’attenzione di Aschenbach è ad esempio attratta da un uomo anziano che si accompagna a una comitiva di giovani e che, imbellettato e vestito come se fosse uno di loro, dà inconsapevolmente mostra di sé. Aschenbach trova quindi alloggio in un albergo del Lido dove, a cena, scorge per la prima volta un ragazzo di quattordici anni che gli sembra da subito bello come una divinità greca. Il ragazzo, con i tratti ancora femminei e infantili della preadolescenza, appartiene a una nobile famiglia polacca e si trova in villeggiatura in compagnia delle sorelle, della madre e dell’istitutrice. Il contrasto con le sorelle, vestite in modo rigido ed austero e da cui non traspare alcuna traccia di femminilità, contribuisce a rafforzare l’impressione di grazia ed eleganza che il ragazzino trasmette. Il giorno dopo, in spiaggia, Aschenbach osserva il ragazzino giocare con gli altri giovani dell’albergo e riesce a cogliere il suo nome: Tadzio.

Tuttavia, il clima della laguna non è clemente e l’afa commista al tempo piovoso non fa che peggiorare la saluta precaria di Aschenbach. Lo scrittore decide così di partire anche da Venezia, sebbene non voglia abbandonare il giovane che tanto lo affascina, né farsi sconfiggere dalle condizioni esterne, continuando quindi a vagare da un luogo all’altro. Aschenbach disdice la propria stanza e manda il bagaglio in stazione tramite un fattorino. Una volta arrivato in stazione però scopre che il destino ha giocato in suo favore: il bagaglio è stato infatti spedito a Como per errore. Così, intimamente sollevato per la possibilità di rivedere Tadzio, Aschenbach decide di tornare in albergo in attesa che rispediscano indietro le sue valigie. Il nobile scrittore sviluppa per il ragazzino una vera e propria ossessione. Si ferma a guardarlo mentre gioca in spiaggia, lo segue a distanza durante le passeggiate per la città insieme alle sorelle e all’istitutrice, arriva persino a compiacersi dell’aspetto debole del ragazzino, che probabilmente non diventerà mai adulto, provando una segreta soddisfazione all’idea che forse nessuno potrà amarlo. L’uomo è così succube del suo delirio amoroso che, quando gli riconsegnano il bagaglio, sceglie di restare a Venezia per altro tempo. Nel frattempo Tadzio comincia a rendersi conto dell’insistente sguardo dell’uomo e spesso, con espressione seria e occhi bassi, ricambia, pur senza mai palesare esplicitamente una reazione chiara.

Con il passare dei giorni, Aschenbach si accorge che sono sempre meno i villeggianti tedeschi a Venezia, dove intanto sono comparsi per le strade, impestate da un forte odore di disinfettante, dei misteriosi cartelli sanitari. Lo scrittore chiede così informazioni in albergo e per le calli, ma tutti gli rispondono che la città viene disinfettata preventivamente per il caldo e per lo scirocco. Sembrandogli un’ipotesi poco probabile, Aschenbach recupera qualche giornale tedesco (dove si cita una non meglio precisata pestilenza) e, facendo pressioni su un impiegato dell’ufficio del turismo inglese, scopre che a Venezia imperversa ormai da mesi un’epidemia di colera asiatico, tenuta nascosta dal governo ai turisti stranieri per non rovinare gli introiti economici della città. Anche i giornali tedeschi, preventivamente fatti sparire dalla circolazione, hanno scoperto la notizia solo dopo la morte di un turista austriaco. Aschenbach potrebbe dare l’allarme tra gli ospiti dell’albergo, ma decide di tenere per sé il segreto perché più della malattia teme la partenza di Tadzio. La sua passione amorosa si è infatti di giorno in giorno trasformata in follia, tanto che egli si è ormai convinto che anche altri (e in particolar modo le sorelle e l’istitutrice, che si mostrano ostili nei suoi confronti) si siano accorti dei suoi sguardi verso il ragazzo. Ossessionato dal proprio aspetto Aschenbach prova vergogna per la propria età, e si reca continuamente dal parrucchiere, si tinge i capelli e si fa truccare, finendo per somigliare a quell’uomo che sul traghetto tanto aveva deriso. Così acconciato segue ancora una volta Tadzio attraverso le calli: il ragazzino lo vede, ma non dice nulla all’istitutrice. Attraversato un ponte però Aschenbach lo perde di vista, è febbricitante e affaticato e si accascia su un pozzo.

La mattina dopo, al risveglio dopo una notte tormentata in cui sogna di prendere parte a un baccanale, scopre che la famiglia polacca è in procinto di partire. Si reca così stancamente in spiaggia, dove osserva da lontano una lite tra Tadzio e un altro ragazzino. I due cominciano a picchiarsi e il contendente, più forte di Tadzio, lo spinge con la testa nella sabbia facendolo quasi soffocare. Una volta liberato Tadzio si avvia verso il mare e si allontana passeggiando su una secca. Immergendosi in acqua, il ragazzino si volta ancora una volta e guarda verso Aschenbach. Allo scrittore sembra quasi che il ragazzo gli sorrida, sta per alzarsi e raggiungerlo ma cade riverso sulla sua sdraio. Poco ore dopo, Gustav von Aschenbach muore.

 

Commento

 

La morte a Venezia racconta l’amore platonico e autodistruttivo che un vecchio scrittore tedesco prova per un ragazzino in villeggiatura con la famiglia a Venezia. Questo amore che porta un uomo assennato, riconosciuto dalla società benestante e benpensante come un punto di riferimento etico ed estetico, a far crollare progressivamente tutte le proprie certezze fino a rifuggere persino la propria salute fisica, rischiando il contagio del colera e quindi la morte. Thomas Mann fa così convergere nel personaggio di Aschenbach due aspetti della propria personalità e della propria attività artistica: da un lato la compostezza e la ricerca dell’ordine borghese e dall’altro la tensione spirituale dell’arte e dell’amore a rompere gli schemi e a contraddire la logica del successo materiale. Questa antitesi, insolubile per Mann (come si vede anche nei suoi romanzi maggiori), è alla base della crisi e della sconfitta di Aschenbach, su cui lo scrittore proietta in parte motivi autobiografici: la morte, quasi involontariamente cercata dal protagonista nel suo rifiuto di abbandonare Venezia, può essere letta come quella “pulsione di morte” indicata da Sigmund Freud come una tensione autodistruttiva del soggetto, correlata appunto alla coazione a ripetere.

L’atmosfera di morte è infatti dominante sin dalle prime pagine del libro. Aschenbach avverte il richiamo alla partenza nei pressi di un cimitero, dopo l’apparizione di una strana figura, che è metafora del destino che l’attende. Anche la visione del vecchio imbellettato sulla nave verso Venezia che si intrattiene con ragazzi molto più giovani di lui non è solo un dettaglio comico ma preannuncia la trasformazione di Aschenbach quando pedina Tadzio per le calli veneziane. La città stessa, d’altronde, ben si presta a rappresentare l’ambiguo connubio tra Amore e Morte: seducente erede di un passato glorioso e culla di artisti, Venezia è ormai l’oscuro fantasma degli sfarzi di un tempo. La sua estetica decadente con le strette calli, i portici e le acque ristagnanti si ricollega quindi alla funzione allegorica del colera, che rappresenta la crisi etica ed esistenziale del protagonista e la sua crescente mania morbosa. L’esito della vicenda indica per Mann l’impossibilità di risolvere l’enigma che lega realtà ed esperienza artistica (o pulsione dei sensi): se la prima sembra negare e proibire la seconda, tuttavia senza di essa perde valore; al  tempo stesso, l’esperienza sensuale e aritistica, se vissuta pienamente, porta inevitabilmente ad una drammatica sconfitta. Non è allora casuale che nelle ultime pagine del testo Aschenbach sia sconvolto da un incubo tormentoso, che mette in luce tutte le sue contraddizioni. Lo scrittore sogna infatti di trovarsi in un baccanale, descritto con toni cupi e immagini carnali e violente, ben lontane dalla serena bellezza classica di Tadzio.