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"I sommersi e i salvati" di Primo Levi: commento

Presentiamo qui tre estratti da I sommersi e i salvati, che rappresentano i temi principali affrontati dall’autore nell’opera: la fallacia della memoria umana, la lotta interna al lager tra i prigionieri, in quella che Levi definisce “la zona grigia”, e il sentimento di angoscia e di vergogna che l’autore ha provato al momento della liberazione.

Nel primo capitolo, intitolato La memoria dell’offesa, Levi esprime la sua preoccupazione riguardo al ricordo della Shoah; poiché la memoria umana tende ad eliminare o modificare i ricordi con il passare del tempo, il terrore dell’autore è che anche la tragedia dei Lager possa, un giorno, essere dimenticata:

La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei 1.

Questa angoscia, che torna perenne in numerosi scritti di Levi, è giustificata dal fatto che la memoria dovrebbe portare con sé la conoscenza, e quest’ultima dovrebbe fare sì che il genere umano non ripeta gli stessi orrori del passato. Quello dell’oblio è un rischio che l’autore ha ben presente e che tratteggia con lucidità, sottolinenando sia i rischi della “lenta degradazione” della memoria sia quelli della stereotipizzazione del passato:

Si conoscono alcuni meccanismi che falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo quelli cerebrali; l’interferenza da parte di altri ricordi “concorrenziali”; stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. [...] È certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese 2.

Per quanto riguarda “la zona grigia”, descritta da Levi nel secondo capitolo, si può affermare che essa rappresenta uno degli aspetti più importanti e agghiaccianti del libro. Levi ci svela infatti che l’animo umano, davanti a un attacco esterno di dimensioni annientanti come fu quello nazista, non scelse l’unione contro l’aguzzino, ma la cosiddetta “lotta tra poveri”. L’autore descrive così l’arrivo ad Auschwitz:

Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati 3.

Con l’ultima citazione da I sommersi e i salvati, analizziamo il terzo tema di cui Levi ci parla, quello della liberazione. Questo momento, sognato e sperato durante la reclusione, preludio di un ritorno alla vita, venne vissuto dalla maggior parte dei liberati con angoscia e vergogna:

Nella maggior parte dei casi, l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non “piacer figlio d’affanno” 4: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia 5.

Tornando alla vita, come ci spiega l’autore, si torna a percepire la realtà da essere umani, e non più da fantasmi disumanizzati, e tutto il dolore e l’umiliazione di quella esperienza crolla sui sopravvissuti, insieme alla vergogna di essere riusciti ad uscire vivi dal Lager, che porta con sè due domande ricorrenti: “a quale costo?” e “perché proprio io?”.

1 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 14.

2 Ivi, pp. 14-15.

3 Ivi, p. 25.

4 Si tratta di una citazione da La quiete dopo la tempesta (v. 32) di Leopardi dove, sulla scorta di alcune considerazioni contentue nella Zibaldone, il poeta sviluppava la tesi per cui il piacere è figlio della sofferenza. Qui Levi capovolge l’assunto leopardiano.

5 P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 51.