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Orazio, Odi (I, 9), "Vides ut alta stet nive candidum": traduzione, metrica, analisi

Introduzione

 

In questo carme all’interno delle sue Odi Orazio tratteggia inizialmente un paesaggio invernale di campagna, immobile per il gelo, cui poi contrappone, nella seconda strofe, lo spazio chiuso del simposio, reso vivo dal calore del focolare e del vino, nonché dai movimenti di Taliarco, destinatario dal “nome parlante” che indica il re del banchetto (dal greco talìa, “festa” e àrcho, “guidare”). Nelle strofe successive il poeta si sposta dal piano concreto del simposio a quello astratto, riflette sul significato simbolico dell’inverno - emblema della tristezza e della vecchiaia - e fa proprio l’insegnamento epicureo a non rimandare a un domani incerto i piaceri della giovinezza. Non a caso nell’ultima strofe il lettore è accompagnato di nuovo all’aperto, tra le piazza e i portici della città, dove gli innamorati si danno appuntamento.

 

Analisi

 

L’ode è uno dei componimenti oraziani in cui l’ispirazione di Alceo è più evidente: come al solito, tuttavia, il poeta latino non si limita a tradurre il modello greco 1, ma lo elabora in maniera originale (come già nell’ode proemiale dedicata a Mecenate o in Exegi monumentum aere perennius). Da un lato Orazio introduce, rispetto al frammento che costituisce il probabile ipotesto alcaico, elementi descrittivi indispensabili per un pubblico di lettori che non assistevano alla scena rappresentata, al contrario dei partecipanti al simposio greco, i quali fruivano immediatamente del carme recitato e potevano cogliere “in diretta” elementi evocati con poche immagini. Dall’altro egli “romanizza” alcuni di questi elementi per renderli più familiari a chi legge; tra questi il monte Soratte innevato, l’anfora sabina che contiene vino “di quattro anni”, il Campo Marzo cui si allude al v.18.

Il carme nel suo complesso può essere quindi letto come un progressivo allontanamento dall’iniziale spunto alcaico, richiamato anche dal metro, sui cui si innesta la riflessione gnomica epicurea 2 e, nell’ultima strofa, un vivace realismo dal gusto alessandrino.

Metrica: strofe alcaica.

  1. Vidès ut 3àlta stèt nive càndidum
  2. Soràcte 4 nèc iam sùstineànt onus
  3.  silvàe labòrantès gelùque 5
  4.    flùmina cònstiterìnt 6 acùto.
  5. Dissòlve frìgus lìgna supèr foco
  6. largè repònens àtque benìgnius
  7.  depròme quàdrimùm Sabìna
  8.    ò Thaliàrche, merùm diòta 7.
  9. Permìtte dìvis cètera, quì simul 8
  10. stravère 9 vèntos àequore fèrvido
  11.  depròeliàntis 10, nèc cuprèssi
  12.    nèc veterès agitàntur òrni.
  13. Quid sìt futùrum cràs, fuge quàerere 11 et,
  14. quem Fòrs 12 dièrum cùmque 13 dabìt lucro
  15.  adpòne 14 nèc dulcìs amòres
  16.    spèrne, puèr 15, neque tù chorèas 16,
  17. donèc virènti cànitiès 17 abest
  18. moròsa. Nùnc et càmpus et àreae 18
  19.  lenèsque sùb noctèm susùrri 19
  20.    còmposità repetàntur hòra 20,
  21. nunc èt latèntis 21pròditor ìntimo
  22. gratùs puèllae rìsus ab àngulo 22
  23.  pignùsque dèreptùm lacèrtis
  24.    àut digitò male pèrtinàci 23.
  1. Tu vedi come si levi bianco per la neve profonda
  2. il Soratte, come non sostengano più il peso
  3. i boschi affaticati e per il gelo
  4. penetrante i ruscelli si siano fermati.
  5. Scaccia il freddo, ponendo legna sul focolare
  6. in abbondanza e più generosamente [del solito]
  7. versa, o Taliarco, vino puro
  8. di quattro anni dall’anfora sabina a due anse.
  9. Lascia tutto il resto agli dei: non appena essi
  10. hanno placato i venti che si combattono sul mare
  11. ribollente, né i cipressi
  12. né gli antichi frassini si agitano più.
  13. Che cosa avverrà domani, non chiedertelo e
  14. qualunque giorno la Sorte concederà, mettilo
  15. dalla parte dei guadagni e non disprezzare
  16. i dolci amori, finché sei giovane, né le danze,
  17. finché da te nel fiore degli anni è lontana la canizie
  18. fastidiosa. Ora il Campo Marzio, le piazze
  19. e i bisbigli sommessi sul far della notte
  20. vanno cercati all’ora concordata,
  21. ora la gradita risata che da un angolo nascosto
  22. rivela la ragazza lì nascosta
  23. e il pegno strappato alle braccia
  24. o al dito che fa poca resistenza.

1 I commentatori individuano nel fr. 338 Voigt il testo di Alceo preso a modello, qui nella traduzione di G. Guidorizzi: “Piove. | Dal cielo, | una grande tempesta, | le correnti dei fiumi | sono diventate di ghiaccio. | Scaccia l’inverno, alimenta | il fuoco, nelle coppe | senza risparmio versa | il vino di miele [...]”.

2 La fonte più vicina è quella della quattordicesima massima contenuta nel Gnomologio Vaticano, una raccolta del pensiero epicureo (o Sentenze Vaticane), che recita: “Nasciamo una sola volta, e non possiamo nascere una seconda volta; per l'eternità, è necessario non esistere più. Ma tu, benché non abbia padronanza del domani, tuttavia stai rinviando la tua felicità. Così la vita si perde nell’attesa, ed ognuno di noi muore senza aver goduto una sola giornata”.

3 Ut è qui congiunzione subordinante che introduce tre interrogative indirette, i cui soggetti (“Soracte”, “silvae”, “flumina”) sono tutti all’inizio di verso.

4 Soracte: il monte, oggi Sant’Oreste, si trova a circa quaranta chilometri a nord di Roma.

5 L’endecasillabo alcaico, con le sue numerose sillabe lunghe, rende perfettamente l’idea di stanchezza. L’immagine metaforica dietro ai versi iniziali è che il gelo della stagione invernale è quello interiore del poeta di fronte all’inarrestabile fluire della vita e delle stagioni. Meglio allora, come affermato dal v. 13 (“Quid sit futurum cras..”), pensare all’oggi e non riporre illusioni nel futuro.

6 constiterint: da consisto, isi, stiti, ere, “fermarsi, stare, prendere posizione”.

7 Si noti la raffinata posizione degli aggettivi, in enjambement, rispetto ai sostantivi cui si riferiscono: “quadrimum […] merum” è il vino puro invecchiato di quattro anni; la “Sabina […] diota” è l’anfora a doppia ansa che contiene evidentemente vino sabino. L’aggettivo geografico è riferito per ipallage a “diota”, ma logicamente va connesso con “merum”. “Diota” è un grecismo mentre il vino Sabino citato da Orazio non è tra i più raffinati e pregiati, ma ben si adatta al concetto di aurea mediocritas tipico della sua poetica.

8 Nella traduzione si è scelto di sciogliere l’anacoluto creato dal pronome relativo “qui” seguito dal successivo “simul” (qui da intendere come simul ac, “non appena”).

9 stravere: è forma alternativa e arcaica per straverunt (da sterno, is, stravi, stratum, ere, “stendere, appianare, quietare”).

10 deproeliantis: il participio presente è forma arcaica per deproeliantes (da deproelior, aris, ari, “combattere”), in accusativo perché concordato con “ventos”. Lo stesso accade con il successivo “dulcis” al posto di dulces (v. 15).

11 fuge quaerere: si tratta di una perifrasi poetica con cui si esprime l’imperativo negativo: in prosa si avrebbe noli quaerere oppure ne quaesiveris. Si tratta del modello epicureo delineato per esempio nella celeberrima ode del Carpe diem (I, 11).

12 Fors: si tratta qui della Fortuna intesa come fato imprevedibile (ed indifferente alle sorti e ai desideri degli uomini).

13 quem […] cumque: è tmesi per quemcumque, seguito dal genitivo partitivo “dierum”.

14 lucro adpone: l’espressione lucroadponere (adpono, is, posui, positum, ere, “apporre, collocare, aggiungere”) è tipica del linguaggio commerciale.

15 puer: qui è nominativo con funzione predicativa.

16 neque tu choreas: a Roma il ballo non è ben visto in quanto tipico costume ellenistico, perciò è probabile che il giovane non danzi, ma guardi le ballerine danzare.

17 virenti canities: tipica callida iunctura oraziana: qui si contrappone il verde vivo della giovinezza al bianco dei capelli della vecchiaia.

18 campus et areae: il Campo Marzio e le piazze di Roma sono da intendersi qui come i luoghi di incontro degli innamorati.

19 lenesque sub noctem susurri: si noti l’allitterazione della consonante sibilante - s.

20 composita […] hora: si tratta di un ablativo assoluto con valore temporale.

21 latentis: è un participio presente del verbo lateo (lateo, es, ui, ere, “essere nascosto, celarsi, nascondersi”), concordato con il genitivo “puellae” del verso successivo.

22 La frase è scandita da ben tre iperbati che impreziosiscono lo stile del testo; la costruzione è la seguente: “nunc [verbo sottointeso: repetatur] et gratus proditor risus puellae latentis ab intimo angulo”.

23 pignusque dereptum [...] male pertinaci: si tratta di un pegno, probabilmente un bracciale o un anello, tolto alla ragazza - che in realtà non oppone vera resistenza -  per costringerla a ripresentarsi all’appuntamento successivo. La scenetta con cui si chiude il testo mette in luce tutta l’ironia e la capacità di penetrazione psicologica di Orazio: l’invito a godere del presente (v. 13) è esemplificato dalla figura di una giovane innamorata che prima si nasconde in un angolo buio della piazza, poi si tradisce da sola ridendo di fronte allo smarrimento dell’amante. Il tocco oraziano è poi il “male pertinaci” (v. 24) con cui si allude al pegno d’amore (un anello o un bracciale) che il giovane porta con sé per rivedere la ragazza: la ritrosia di quest’ultima - fa capire il poeta - è solo di facciata.