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Alfieri, "Tacito orror di solitaria selva": analisi e commento

Il sonetto CLXXIII, Tacito orror di solitaria selva, datato 16 agosto 1786, introduce il paesaggio preromantico ma "senza il languore, le incertezze, le cadute canore di tanta letteratura dell'epoca" (Walter Binni, 1968). All'interno di uno schema metrico tradizionale (ABBA, ABBA, CDC, DCD) la prima quartina si apre con il silenzio fosco e isolato di una selva solitaria che risolleva l'animo dell'autore con una tristezza piacevole, gradita a tal punto che nessuna belva spaventosa, quando si ritrova coi suoi cuccioli, avverte lo stesso beato piacere.

La seconda quartina procede nella descrizione del benessere che si crea nell'animo man mano che i passi procedono all'interno, tanto che il ricordo della piacevolezza provata ripropone la memoria dell'esperienza della selva ("si rinselva"). La metamorfosi dei verbi riflessivi collocati a fine verso, "s'inselva" e "si rinselva", rimanda molto da vicino a un tipico procedimento dantesco, che ricorre soprattutto nella terza cantica. L'Alfieri utilizza non a caso la parola "selva" nella creazione dei due neologismi che richiamano direttamente l'immaginario della Commedia, ma rovesciandone il carattere: mentre per l'Alighieri la "selva oscura" è il luogo dello smarrimento e dell'inquietudine morale, per l'Alfieri questa è il luogo della pace e dell'intima riconciliazione.

La prima terzina, con un registro linguistico vicino al parlato ("Non ch'io gli uomini...") introduce una dichiarazione in cui l'autore spiega che egli non disprezza gli uomini e non crede affatto di non avere difetti, come non sostiene di essere più vicino degli altri al giusto sentiero, attuando così un ulteriore richiamo al Dante della "diritta via", ma, come riprende nella seconda terzina, rifiuta il suo tempo e la sua realtà pavida (œ"ma, non mi piacque il mio vil secol mai") e oppressa dal dispotismo, fugge quel "regal giogo" che lo perseguita nella vita civile e lo abbandona soltanto nei "deserti".

Nell'ultima terzina la selva diventa così un deserto e mette in evidenza il vero motivo del piacere che l'Alfieri prova: non la fascinazione per i luoghi oscuri e selvaggi, ma l'isolamento dalla vita sociale e la lontananza da ciò che può indurlo a lamentarsi del suo tempo. I versi 3-4 della seconda strofa introducono un principio che a distanza di qualche decennio diverrà molto caro al Leopardi: la memoria come potenza evocativa di stati e sentimenti passati.

 

Metrica: sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD

 

Tacito orror di solitaria selva

di sì dolce tristezza il cor mi bea,

che in essa al par di me non si ricrea

tra' i figli suoi nessuna orrida belva.

 

E quanto addentro più il mio piè s'inselva,

tanto più calma e gioia in me si crea;

onde membrando com'io la godea,

spesso mia mente poscia s'inselva.

 

Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso

mende non vegga, e più che in altri assai;

nè ch'io mi al buon sentier più appresso;

 

ma non mi piacque il vil secol mai:

e dal pesante regal giogo oppresso,

sol nei deserti tacciono i miei guai.