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Jacopo da Lentini, "Io m'aggio posto in core a Dio servire": testo originale ed analisi

Il sonetto Io m'aggio posto in core di Giacomo da Lentini mostra una singolare contaminazione tra sentimento amoroso e spirito religioso.

 

Secondo il filologo Gianfranco Folena, nello scorrere i versi e le immagini del testo “sembra di essere sulle soglie dello stilnovo guinizzelliano”. Ma il suo carattere peculiare, e cioè l'ambientazione secondo gli elementi caratteristici di un immaginario terreno, di un “santo loco” in cui però si “mantien sollazzo, gioco e riso” (terna tra l'altro presente anche nella canzone di Giacomino Pugliese, Morte perché m'hai fatta), restituisce l'idea di un paradiso fisico ed essenzialmente corporeo, anziché quella di una corte angelica trascendente e spirituale. Anche il registro medio del componimento contribuisce a creare la tipica leggerezza del repertorio trobadorico, che anche nella metafora religiosa non sconfina mai troppo in un'atmosfera incorporea. Giacomo sembra compiere un gesto ironico nel trasferire il tipico precetto cortese della misura (mezura), e cioè il contenimento della carnalità attraverso l'esaltazione del sentimento e del servizio amoroso, in una realtà ultraterrena.

 

Infatti, nella prima terzina, subito successiva ad un elogio delle bellezze fisiche della sua donna, l'autore sembra desideroso di giustificarsi e di dichiarare che egli non coltiva affatto l'intenzione di peccare con lei in paradiso (in riferimento al verso precedente “ché sanza lei non poteria gaudere”, v. 7), bensì di contemplare solo la sua moralità. Nella prima quartina dunque, si rivolge ai lettori e dice: “Io ho espresso il proposito di servire Dio, per darmi la possibilità di andare in paradiso, in quel luogo santo in cui ho sentito dire (e questa è un'espressione tipicamente popolare, come se la notizia fosse il risultato di qualche diceria), che c'è sempre divertimento, gioco e risate” (vv. 1-4), "ma", così continua: “non ci andrei mai senza la mia donna, quella che ha i capelli biondi e il volto luminoso; perché senza di lei non potrei mai godere, essendo da lei lontano” (vv. 5-8). Il termine “gaudere”, oltre a formare una rima siciliana con i precedenti “servire”, “dire”, “gire”, rappresenta un termine chiave della poesia cortese. “Ma non lo dico allo scopo di commetterci peccato, ma per vedere la sua moralità” (vv. 9-11), continua: “assieme al suo bel viso e al dolce sguardo: e sarebbe una grande consolazione contemplarla in questo modo nella gloria dei cieli” (vv. 12-14).

 

Riportiamo qui il sonetto (schema ABAB ABAB CDC DCD):

 

Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire,

com’io potesse gire in paradiso,

al santo loco, c’ag[g]io audito dire,

o’ si mantien sollazo, gioco e riso.

 

Sanza mia donna non vi voria gire,

quella c’à blonda testa e claro viso,

che sanza lei non poteria gaudere,

estando da la mia donna diviso.

 

Ma non lo dico a tale intendimento,

perch’io pecato ci volesse fare;

se non veder lo suo bel portamento,

 

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:

che·l mi teria in gran consolamento,

veggendo la mia donna in ghiora stare.