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Manzoni e la "rettorica": commento a "I promessi sposi"

Il carattere di semplificazione, e dunque di finzione, della rappresentazione letteraria, unitamente alla consapevolezza dei limiti della ragione come strumento di conoscenza, risultano il presupposto dei tormenti e dei dubbi dello scrittore che Manzoni, con la consueta, dissimulata leggerezza ironica, espone, sempre nel Fermo e Lucia, quando, descrivendo le difficoltà oratorie di un Renzo ormai ubriaco all’Osteria della Luna piena, si esprime in questi termini:

 

Questi, rimasto solo alla sua tavola, (ci duole raccontarlo, ma la cosa fu così) vuotò solo in varie riprese il fiasco che aveva fatto riempire di nuovo per due bevitori, lo vuotò, alternando i sorsi con le parole, e ponendoselo a bocca ogni volta che l'idea la quale s'era presentata splendida e risoluta alla sua mente si oscurava e fuggiva tutto ad un tratto, o la frase per vestirla non voleva lasciarsi trovare; a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco. Pure, siccome allo scrittore infervorato nelle sue idee, vengono talvolta nel maggior calore della composizione certi lucidi intervalli, nei quali una voce interna dice ad un tratto: – e se fossero minchionerie? – così anche il nostro poveretto, in mezzo a quella baldanza di pensieri, in quella crescente esuberanza di forze, sentiva di tempo in tempo che a quelle forze mancava un certo fondamento, e che appunto nel momento della più grande intenzione parevano pronte a cadere.

Ecco la questione che si deve porre lo scrittore, nella foga della scrittura, e che probabilmente si pose Manzoni alla fine del Fermo e Lucia: “e se fossero minchionerie?”. La risposta fu la riscrittura del romanzo, continua, accanita, tesa a concentrare, a rimuovere i dettagli troppo espliciti e le affermazioni troppo sicure. A fronte della presunzione di rappresentare efficacemente una realtà che si rivela invece essere sempre più complessa e polifonica, rispetto alla quale la parola letteraria esplicita e troppo definita risulta coprire anziché rivelare, l’unico modo per tentare di utilizzare un linguaggio che non rimuova il molteplice simultaneo presente nella società umana, cioè in “quello stato che è un mistero di contraddizioni in cui la mente si perde” (come si legge nel cap. II del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia), appare a Manzoni quello di fare ricorso ad un linguaggio allusivo, un linguaggio della dissimulazione, dove si omette e al contempo si allude a quello che si omette e a tutte le connessioni che l’omesso reca in sé.

 

Manzoni dunque cercò, con la riscrittura, il linguaggio che suggerisce e condensa attraverso la dissimulazione, la quale spesso è poi alla base della scelta dell’ironia. Così è di estremo interesse quanto l’autore comunica nel descrivere lo scempio in casa di don Abbondio dopo il passaggio dei Lanzichenecchi nel capitolo XXX de I promessi sposi del 1840:

 

Solo nel focolare si potevano vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo.

Lo stile dell’uomo di garbo allora è proprio quello che si esprime attraverso delle “idee sottintese” che, in quanto tali, salvaguardano la complessità della compresenza di aspetti diversi nella condizione umana, ad ogni livello, proprio perché questa particolare tipologia stilistica non si focalizza esclusivamente su pochi elementi di una situazione con il risultato di oscurare tutti gli altri. Di qui allora la richiesta, contenuta nell’Introduzione al romanzo nella redazione del ’40, di “un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto”, quella cioè preclusa alla pletorica facondia dell’anonimo secentista e del letterato tradizionale.