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La Destra storica: riassunto

Introduzione

Con l’espressione “Destra storica” s’intende una corrente ideale e politica i cui esponenti sono costantemente maggioritari nel Parlamento piemontese e in quello italiano dopo il 1861  e che si trovano quindi a gestire gli anni a cavallo dell’Unità nazionale
L’aggettivo “storica” (come nel caso della Sinistra che ad essa si oppone) serve a sottolineare la differenza rispetto alle formazioni successive, più direttamente legate alla questione sociale, che saranno tipiche del XX secolo.
Benché il ciclo politico della Destra storica inizi nel 1849, comprendendo quindi anche gli anni dei governi D’Azeglio e Cavour, l’espressione è correntemente utilizzata per indicare il primo quindicennio politico dell’Italia unita, caratterizzato da un indirizzo politico di marca liberal-conservatrice.

 

La condizione del Regno al momento dell’Unità nazionale

Il paese, unificato il 17 marzo 1861, lo è tuttavia solo formalmente e l’ampliamento, ratificato volta per volta da plebisciti, si compie nell’arco di appena un biennio. Non solo il Lazio e il Veneto sono ancora al di fuori del territorio nazionale italiano, ma anche all’interno di esso si rendono necessarie profonde misure di riforma per omogeneizzare le leggi di territori fino a quel momento divisi e caratterizzati da usi ed istituzioni profondamente diversi.
Il governo di Torino si trova prima di tutto a dover abolire le frontiere interne, creare un nuovo sistema bancario e dare al paese un’unica moneta, stabilire un sistema di misure uniforme e dotare il nuovo Stato di un unico sistema d’istruzione.
Oltre alle differenze giuridiche e di costume, sono le profonde disparità sociali a caratterizzare la vita della nuova Italia: il 65% dei suoi abitanti è dedito all’agricoltura ma essa, nel meridione e più in generale lungo tutto l’arco appenninico si serve ancora di mezzi particolarmente arretrati che spesso possono appena garantire la sussistenza a contadini e braccianti. In molte zone, nonostante le riforme della prima parte del secolo, sopravvive il latifondo con rapporti di dipendenza di stampo ancora chiaramente feudale.
Le poche manifatture funzionanti sono concentrate in Piemonte e nella Pianura Padana, mentre le industrie del Regno delle Due Sicilie, costituite con capitale straniero grazie agli incentivi fiscali e al protezionismo dei Borbone, non resistono alla concorrenza con le omologhe settentrionali ed europee, che si sono rafforzate con l’apertura del mercato. Anche le infrastrutture della nuova Italia sono distribuite in maniera diseguale: le ferrovie, affidate a tante società private, hanno un percorso complessivo di circa 2000 chilometri, anch’essi quasi tutti collocati nel nord della penisola mentre nelle Due Sicilie - sebbene lo Stato borbonico vanti il primato della prima linea Napoli-Portici inaugurata nel 1839 - questa è rimasta poco più che un giocattolo di corte e non ha dato vita ad una rete capace di migliorare la produttività e la mobilità del paese.
Il Regio esercito, nato dall’unione di compagini militari fino a quel momento nemiche, fatica a integrare organici abituati a regolamenti e discipline diverse; nella marina le flotte napoletana, siciliana e ligure sono praticamente paralizzate - e se ne avrà la dolorosa dimostrazione durante la terza guerra di indipendenza - dalle gelosie e le inimicizie tra i rispettivi comandi.
Il problema più grave che il nuovo regno deve affrontare dal punto di vista sociale, tuttavia, è la vera e propria guerra civile scatenatasi nelle regioni meridionali che, coniugando malcontento contadino, legittimismo borbonico e criminalità comune, assorbe gran parte delle forze militari dello Stato e impedisce la normalizzazione della vita in quelle province. Il governo, per di più, rifiuta categoricamente di prendere in considerazione le ragioni sociali ed economiche delle sollevazioni e, cogliendone solo gli aspetti criminali e di eversione politica, le derubricherà a semplice brigantaggio, reagendo con leggi spesso sanguinariamente ingiuste come la legge Pica.

 

Caratteristiche politiche e azione di governo della Destra storica

La Destra che domina il Parlamento ed esprime i primi governi dell’Italia unita è descrivibile come un’area politica e non come un partito. Questo per varie cause: innanzitutto, la cultura liberal-conservatrice ottocentesca è estranea o contraria all’idea di una formazione organizzata, contando più sull’iniziativa del singolo e sull’accordo parlamentare; in secondo luogo, il sistema elettorale, basato su piccoli collegi uninominali, garantisce l’elezione ai notabili che possano disporre di estese influenze e clientele, mentre solo l’allargamento del suffragio e la nascita di formazioni operaie alla fine del secolo renderanno necessarie forme di coordinamento politico ed ideologico più ampie e strutturate.
Gli uomini che siedono nei banchi della destra, per giunta, vengono da estrazioni ed esperienze profondamente diverse - anche per ragioni storiche, viste le differenze tra i vari Stati preunitari della penisola - ma si riconoscono tutti nelle posizioni del conservatorismo moderato e del liberoscambismo economico. Dopo le prime elezioni che coinvolgono tutta la penisola, in ogni caso, gli esponenti conservatori si dividono tra il gruppo dei “piemontesi”, più direttamente legati alla figura di Cavour, e i “tosco-emiliani”, che ricevono il sostegno dei deputati lombardi e meridionali.
Elettoralmente, essi sono l’espressione della vittoria dei grandi proprietari terrieri, dei pochi industriali e della forte influenza degli ambienti militari sulla vita pubblica; situazione resa più facile anche dal suffragio estremamente ristretto, visto che hanno titolo per votare meno di 500.000 persone su 22 milioni di (cioè l’1,8% della popolazione). Esponenti come Lanza, La Marmora, Sella, Ricasoli e Minghetti sono quindi l’espressione politica della parte più avvertita dell’aristocrazia (quella che cioè ha rifiutato il legittimismo più chiuso e conservatore) e dei ceti proprietari.

Per quanto riguarda l’unificazione legislativa e amministrativa costoro, in perfetta continuità con quanto fatto da Cavour prima del 1861, concepiscono l’unità nazionale come semplice estensione ai territori recentemente acquisiti delle norme piemontesi preesistenti. Da qui derivano alcune delle più discusse e problematiche iniziative di governo, come la restrittiva legge elettorale, l’intervento nel campo dell’istruzione pubblica con la legge Casati sull’istruzione pubblica 1, ma anche un rigido accentramento statale (ad esempio, nessuna autonomia è lasciata alle comunità locali e non solo i prefetti ma perfino i sindaci sono nominati dal governo centrale) e la coscrizione obbligatoria, destinata a causare malcontenti e rivolte soprattutto in quelle parti di popolazione che fino ad allora ne era state esentate.

In politica economica, i governi della Destra storica devono tenere conto delle esangui finanze piemontesi, molto ridotte a causa delle spese dovute alle guerre risorgimentali e solo in parte rimpinguate grazie all’acquisizione del tesoro del Regno delle Due Sicilie, l’unico tra gli Stati preunitari a non avere debito pubblico, principalmente a causa dell’’arretratezza della macchina statale e degli scarsissimi servizi offerti ai propri sudditi. Per questa ragione, nel 1862 il ministro dell’economia Quintino Sella dichiarò come obiettivo del proprio dicastero il raggiungimento del pareggio di bilancio.
Per raggiungere un simile scopo, si rende necessario varare una politica d’inasprimenti fiscali, dapprima concentrati sulle imposte dirette, destinate quindi a colpire gli agrari e i redditi più alti, in seguito (anche a causa delle proteste della base elettorale di riferimento delle forze di governo) su quelle indirette, destinate quindi a colpire tutti i consumatori e, percentualmente, in misura maggiore le classi meno abbienti.
L’apice di questo fenomeno si raggiunge nel 1868, quando il primo ministro Luigi Menabrea vara la tassa sul macinato, un’imposta sulla macinazione dei cereali che, affamando letteralmente le masse agrarie delle regioni più povere, causa violente dimostrazioni in varie regioni del paese, cui l’esecutivo reagisce con una violenta repressione militare affidata al generale Raffaele Cadorna, lo stato d’assedio e il progressivo inasprimento dell’imposta stessa. Anche grazie a queste misure draconiane, il governo Minghetti raggiunge l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 1875.

 

La politica estera: due grandi problemi

La politica estera dei governi della destra storica è dominata dalle due grandi questioni che separano il Regno d’Italia dal completamento del ciclo risorgimentale: l’annessione di Roma, che implica anche la ridefinizione dei rapporti col papato e lo statuto dei cattolici nella politica italiana, e quella del Veneto (che all’epoca comprende anche la provincia di Udine), ancora sotto il dominio degli Asburgo.
I primi tentativi per risolvere l’annosa “questione romana” sono naturalmente di tipo politico e diplomatico: già Cavour, nel suo primo discorso alla Camera del Regno d’Italia, aveva indicato la città eterna come “necessaria capitale” del nuovo Stato che non avrebbe trovato un assetto definitivo fino all’acquisizione di essa. I successori dello statista piemontese, pertanto, cercano l’accordo con la Santa Sede per una cessione pacifica della città.
Pio IX tuttavia, forte del sostegno diplomatico e soprattutto militare della Francia di Napoleone III può permettersi di rifiutare sdegnosamente qualsiasi proposta venga dal governo di Torino, già colpevole agli occhi del pontefice dell’ingiustificata annessione dell’Umbria e delle Marche.Inoltre, a Roma hanno trovato rifugio gli ex sovrani delle Due Sicilie, ovvero Francesco II di Borbone e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach, che finanziano ed organizzano le comitive di briganti che insanguinano le regioni meridionali.
Nel 1864, il governo Minghetti trasferisce la capitale del Regno da Torino a Firenze giustificando la mossa con la necessità, in caso di un nuovo conflitto con l’Impero d’Austria, di tenere la capitale più lontana dall’eventuale linea del fronte. Pio IX, tuttavia, interpreta, non senza ragione, lo spostamento della capitale come un avvicinamento di questa a Roma e ciò lo spinge, nel quadro di un irrigidimento delle posizioni della Chiesa con rispetto al liberalismo (di cui lo Stato italiano è considerato la massima espressione), a pubblicare, l’8 dicembre 1864, l’enciclica Quanta cura, cui è annesso il Sillabo, cioè un “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo”. Con un simile documento, un vero e proprio elenco di dottrine “moderne” ritenute inaccettabili per i cattolici, il pontefice decreta un irrigidimento tale che non solo il governo italiano ma perfino il “protettore” francese ne vietano la pubblica lettura.
Lo spostamento della capitale a Firenze, inoltre, non provoca solamente le ire del papa ma anche quelle dei torinesi, giustamente timorosi di vedere la loro città declassata a provincia e di perdere i vantaggi economici che il ruolo di capitale garantiva. Questa situazione genera dunque violente manifestazioni che, anch’esse represse con la forza militare si chiudono con un bilancio di ben trenta vittime.

Due spedizioni progettate da Garibaldi per impadronirsi di Roma con un colpo di mano e mettere le potenze europee di fronte al fatto compiuto sono impedite una prima volta sull’Aspromonte nel 1862 dal governo italiano, una seconda a Mentana nel 1867, dalle truppe francesi che difendono lo Stato pontificio.
La “questione romana”, quindi, si presenta come uno stallo diplomatico in cui nessuna delle parti riesce a far prevalere la propria strategia fino al 1870, quando il crollo dell’impero di Napoleone III a seguito della disastrosa campagna dei francesi contro la Prussia priva Pio IX della potenza che, di fatto, ne garantiva il potere temporale e dà al governo Lanza la possibilità d’impadronirsi militarmente di Roma il 20 settembre 1870 attraverso la celebre breccia di Porta Pia.
Nel tentativo, inutile nell’immediato, di placare lo sdegno del pontefice, l’esecutivo vara la legge delle guarentigie, con la quale riconosce le prerogative di Pio IX e l’extraterritorialità delle sedi vaticane. Il papa tuttavia si dichiara prigioniero dello Stato sabaudo e, con la disposizione Non expedit del 1874, vieta categoricamente ai cattolici italiani di partecipare alla vita pubblica della nazione.
La seconda grande questione che impegna i ministeri degli esteri e della guerra italiani è la conquista del Veneto, culturalmente e linguisticamente italiano ma ancora parte dell’Impero d’Austria. A partire dalla fine della Seconda guerra d’indipendenza, Cavour aveva intuito che il futuro espansionismo italiano ai danni degli Asburgo sarebbe dovuto passare attraverso un’alleanza con la Prussia, potenza militare in rapida espansione ed anch’essa opposta alla corte di Vienna per l’egemonia all’interno della confederazione germanica. L’impero austriaco, oltretutto, rifiuta di riconoscere la legittimità del Regno d’Italia nel 1861, spingendo il governo di Torino a cercare la mediazione delle altre potenze europee.
È però il cancelliere prussiano Otto von Bismarck-Schönhausen, deciso a chiudere la partita “tedesca” con Vienna, a cercare l’alleanza italiana e a spingere Francia e Russia ad accettare l’idea di rimanere neutrali in un futuro ipotetico conflitto tra i due imperi centro-europei.  
Mentre il governo prussiano sfrutta ogni pretesto per irritare la corte di Vienna, il governo italiano accetta finalmente lo schema di trattato proposto da Bismark, siglando l’alleanza italo-prussiana il 28 marzo 1866.
Venuta a conoscenza del trattato, la corte asburgica tenta di rompere l’alleanza offrendosi di cedere all’Italia il Veneto; ma una mossa del genere si rivela ormai tardiva 2.
Nel giugno 1866, a seguito dell’ennesimo dissidio sulla questione dei ducati danesi dello Schleswig e dello Holstein, scoppia la guerra tra Austria e Prussia; l’Italia di Vittorio Emanuele II interviene in favore di Berlino dando inizio a quella che, sul fronte meridionale, costituisce la Terza guerra d’indipendenza.
Le operazioni militari sul fronte italiano sono condotte con indecisione e pressappochismo da un regio esercito che dimostra tutta la propria impreparazione, soprattutto nelle operazioni a Custoza e Lissa: la grande vittoria prussiana a Sadowa, tuttavia, mette in ginocchio l’Austria e la costringe a chiedere la pace, cedendo il Veneto ai Savoia. Sul piano territoriale, il processo risorgimentale può dirsi concluso.

 

La fine della “Destra storica” e la trasformazione in partito politico

A metà degli anni ‘70 del XIX secolo, gli uomini della Destra storica possono dire di aver raggiunto i principali obiettivi che i loro governi si erano prefissi: non solo l’acquisizione di Lazio e Veneto era una realtà ma il 16 marzo 1876 il Presidente del consiglio Marco Minghetti può annunciare il raggiungimento del pareggio di bilancio.
Tutto questo, però, aveva richiesto costi sociali e umani altissimi: nel meridione continentale la guerra al “brigantaggio” aveva causato decine di migliaia di morti ed interi villaggi di contadini (spesso innocenti) erano stati rasi al suolo per fare terra bruciata contro la guerriglia anti-unitaria. In Sicilia, gli organi dello Stato sono apertamente conniventi con un nuovo tipo di criminalità che domina le campagne: la mafia. E l’odiata tassa sul macinato fa sentire ovunque i propri effetti, impoverendo la popolazione e incidendo pesantemente sulle condizioni di vita dei ceti più deboli.
Nel centro e nel nord della penisola, la questione sociale si pone con un’urgenza non minore: nelle fabbriche e negli opifici, per far fronte alla compressione dei salari ed ai turni di lavoro massacranti, nascono le prime società operaie, all’interno delle quali fanno proseliti sia i membri del Partito repubblicano che quelli dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (poi nota come Prima Internazionale), fondata da Karl Marx nel 1864.
Giuseppe Garibaldi, che pure vive in ristrettezze economiche sull’isola di Caprera, rifiuta pubblicamente la pensione concessagli dal governo, ritenendo quest’ultimo responsabile dello stato miserabile delle classi popolari del paese.
In occasione delle elezioni del 1874, inoltre, i prefetti ricevono l’ordine di favorire con ogni mezzo i candidati ministeriali, e spesso gli esponenti democratici e repubblicani sono arrestati senza alcuna giustificazione legale. Nonostante una nuova (ma più ristretta) vittoria elettorale, le forze della Destra devono fronteggiare in Parlamento un’opposizione di sinistra sempre più numerosa e agguerrita.

Il 18 marzo 1876, il governo Minghetti pone la questione di fiducia - per rinviare l’ennesima discussione sulla tassa sul macinato - a proposito della nazionalizzazione delle ferrovie: si trova tuttavia  in minoranza ed è costretto a dimettersi. È una vera e propria “rivoluzione parlamentare”: Vittorio Emanuele II, preso atto di quanto successo alla Camera, affida il compito di formare il nuovo governo al principale esponente dell’opposizione, Agostino Depretis.
Gli uomini della Destra, trovandosi improvvisamente all’opposizione, creano, soprattutto su impulso del gruppo “tosco-emiliano”, il Partito Liberale Costituzionale, primo embrione delle formazioni liberal-conservatrici novecentesche.

1 La legge Casati del 1859 sostituisce con il sistema piemontese le norme degli Stati preunitari che, spesso più arretrati del Piemonte, lasciavano l’iniziativa scolastica ai comuni senza stanziare i necessari fondi.

2 Nell’ottobre 1865 infatti il governo La Marmora ha tantato di avviare trattative con l’Austria per ottenere il Veneto in cambio del pagamento di un’ingente somma di denaro, ma anche questo tentativo è stato categoricamente respinto dalla corte di Vienna.