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Calvino dallo Strutturalismo al Postmoderno

Trama Commento Strutturalismo, semiologia e postmoderno

“La letteratura è la scienza delle soluzioni immaginarie”: questo era il motto dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, Officina di Letteratura Potenziale). Data una simile dichiarazione di poetica, era quasi naturale che questo gruppo accogliesse tra i propri membri un autore come Italo Calvino, inventore di mondi e geografie possibili. L’idea fu di Raymond Queneau, fondatore del gruppo insieme al matematico François Le Lionnais, e fu così che l’8 novembre 1972 Calvino partecipò per la prima volta a una riunione del gruppo in qualità di “ospite d’onore” e nel febbraio 1973 ne fu ufficialmente eletto “membro straniero” (con il titolo di “Brigadiere”). Nato a Parigi nel 1960 come emanazione dell’Accademia della Patafisica di Alfred Jarry, l’OuLiPo si proponeva di integrare matematica e letteratura, mostrando come la seconda fosse soggetta a norme, vincoli e modelli di composizione che potevano essere ricostruiti attraverso i metodi della prima. Tra le pratiche più note c’era la “scrittura sous contrainte”, dove l’autore dimostra tutta la sua abilità componendo un testo tanto più originale quanto più riesce a far coincidere l’invenzione con il rispetto ferreo di una regola formale (un “vincolo”, appunto).

 

A influenzare una simile disposizione era anche il grande successo dello strutturalismo, che in quegli anni aveva diffuso nel campo delle scienze umane - e non solo - la convinzione che ogni disciplina e ogni rispettiva creazione potesse essere ricondotta a un modello formale generale, ispirato alla semiologia. A quell’altezza Calvino, che si era trasferito a Parigi nel 1967 e aveva cominciato a frequentare i principali intellettuali francesi (da Georges Perec a Roland Barthes, da Paul Fournel allo stesso Queneau, di cui traduce I fiori blu nel 1967), aveva già dichiarato la propria preferenza tra una libertà indiscriminata nella scrittura e un’idea di “rinuncia attiva” 1: quest’ultima è la sola che può permettere di ricostruire ciò che si è veramente. La rigidità della contrainte e la possibilità di renderla adatta a un’espressione profondamente personale diventano una cosa sola e determinano l’originalità della scrittura. Soprattutto, però, all’epoca del proprio ingresso nell’OuLiPo, Calvino aveva già pubblicato Il castello dei destini incrociati (Einaudi 1973, ma già uscito nel 1969 nella lussuosa edizione di Franco Maria Ricci) e Le città invisibili (Einaudi 1972), considerati dagli altri membri come vere e proprie “opere oulipiennes”. Se infatti pochi e scarsamente conosciuti furono i testi redatti da Calvino appositamente per l’attività del gruppo (i più significativi sono i lipogrammi scritti in memoria di Raymond Queneau, Poesia a lipogrammi vocalici progressivi, e Georges Perec, in Georges Perec oulipien), le più importanti opere degli anni Settanta sono attribuibili alla medesima ispirazione, che si nutre di logica combinatoria e passione fabulatoria.

 

Tanto Il castello dei destini incrociati quanto Le città invisibili fanno del modello della “rete dei possibili”, già sperimentata da Calvino nel Conte di Montecristo nei "racconti deduttivi", la propria struttura portante:

una poetica che s’affida al puzzle per esprimere il senso di un tempo plurimo e ramificato, un’immagine del mondo quale “sistema dei sistemi”, la vertigine dell’infinito e del vuoto. 2

Così può essere definita la scrittura del Calvino che si cimenta nei più sofisticati modelli combinatori per cercare di dedurne lo schema che riesca a ricollegare il senso delle parole alla materia delle cose. In entrambi i casi il lettore si trova di fronte a una scrittura composta da una cornice che tiene insieme tanti piccoli quadri, racconti e “poesie” (così Calvino ha definito alcune sequenze delle Città invisibili), tessere di un mosaico che si rivela leggibile secondo strategie e percorsi differenti. Il castello dei destini incrociati (diviso nelle due serie del Castello e della Taverna dei destini incrociati) illustra verbalmente e iconograficamente la propria struttura e i criteri che la determinano. Si tratta di una sorta di cruciverba all’interno del quale vengono collocate le carte dei tarocchi, le cui differenti combinazioni producono di volta in volta una storia nuova. La cornice, in cui a parlare è la voce di un anonimo viaggiatore, è costituita dal ritrovo, in un castello e in una taverna, di alcuni ospiti che, non potendo proferire parola, raccontano la propria storia ricorrendo alle immagini raffigurate sulle carte.

 

Nelle Città invisibili, invece, a fare da cornice è il dialogo di Marco Polo e Kublai Kan, con l’esploratore incaricato di descrivere all’imperatore una per una le città dell’impero, per sottrarle attraverso il racconto allo sfacelo prodotto dal tempo. Queste città, però, Marco Polo non le ha viste tutte, alcune non esistono neanche e le inventa “rubando” dei particolari da quella Venezia da cui era partito alla volta dell’Oriente; altre invece, raccontate al Kan in una lingua fatta di gesti, potrebbero essere diverse da come l’interlocutore le ha comprese. Quello che sembrava essere un procedimento esaustivo (un elenco di descrizioni) si rivela invece un metodo rischioso, che lascia sempre dei dubbi sulla corrispondenza tra la verità e le parole usate per dirla.

 

Attraverso queste due complesse opere, Calvino mette alla prova alcuni degli imperativi della riflessione strutturalista (e oulipiana) e verifica la possibilità di ridurre la realtà a uno schema logico universale. L’esito è sostanzialmente negativo: non c’è struttura che possa esaurire le possibilità del reale, rimane sempre uno scarto tra il segno nero della parola e l’universo di significati che a esso possono essere associati (un conflitto che Gianni Celati ridusse, in un intervento del 1973, nei termini di game e play, racconto e fabulazione). Tuttavia, questa constatazione non induce l’autore a smettere di sfidare continuamente le possibilità del linguaggio e del racconto; in questione rimane così il doppio tema:

dell’impossibilità di rappresentare la complessità della vita, speculare all’impossibilità di rinunciare ai tentativi per farlo 3.

Alla freddezza sperimentale dei giochi linguistici dell’OuLiPo Calvino sostituisce così una “sfida al labirinto” che coinvolge la materia calda della realtà vivente. A questo poi, lo scrittore aggiunge una continua interrogazione sull’io, che emerge attraverso proiezioni di un universo interiore fatto di ricordi e inquietudini, che arrivano ad alterare la geometrica astrattezza di queste perfette costruzioni. La sperimentazione condotta attraverso Il castello dei destini incrociati e Le città invisibili viene portata a termine, nel 1979, con Se una notte d’inverno un viaggiatore (Einaudi), iper-romanzo sull’arte di scrivere romanzi, che segna il definitivo trapasso di Calvino al campo del postmoderno (e tradizionalmente con questo libro coincide l’inizio della letteratura postmoderna in Italia). La metaletterarietà che attraversava in maniera carsica le due opere precedenti diventa qui tema e cardine della struttura narrativa: al centro del racconto, infatti, è l’avventura di un Lettore. Il romanzo, come noto, si compone di dieci incipit romanzeschi, che potrebbero sì costituire dei racconti a sé stanti (Calvino parlò di “testi che avrei anche potuto pubblicare indipendentemente come racconti” 4), ma figurano di fatto come testi incompiuti. Il modello combinatorio procede in questo caso per negazioni, “dove ogni 'romanzo' cominciato e interrotto corrispondeva a una via scartata” 5

 

Calvino piega ora la nozione del “vincolo” dell’OuLiPo a una nuova indagine che esplora, attraverso il rapporto Autore-Lettore, quello più ampio e profondo tra testo e fuori-testo, all’ordine del giorno nel dibattito postmoderno sulla riduzione di ogni esperienza al testo e alla scrittura. Come già era stato per le esperienze di scrittura combinatoria più rigida, la risposta di Calvino a questi interrogativi non è univoca e definitiva. Il romanzo, infatti, non ha circolarità, la forma non si chiude e rimane aperta ai modelli che ne sono rimasti esclusi:

per l’idea di totalità ho sempre avuto una certa allergia […]. Diciamo allora che nel mio libro il possibile non è il possibile in assoluto ma il possibile per me 6.

Ancora una volta Calvino dimostra che non ci può essere calcolo o logica che non tenga conto dell’esperienza soggettiva e materiale dell’individuo. In questo caso l’elemento umano è la fascinazione dell’autore per il romanzesco, che contagia lo schema combinatorio e produce un racconto capace di toccare le corde di un pubblico vasto, reso sensibile per via di narrazione alle problematiche di una “scienza della letteratura” che è sempre in cerca del proprio contatto con il mondo della vita vissuta.

 

Bibliografia essenziale:

I. Calvino, La macchina spasmodica (1969), in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995.

I. Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, in «Alfabeta», 1979.

G. Celati, Il racconto di superficie, in «Il Verri», n. 1, 1973.

C. Milanini, L’utopia discontinua: saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990.

D. Scarpa, Calvino, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, vol. IV, Il Novecento, tomo II, Torino, Einaudi, pp. 875-929.

1 Così si esprime lo scrittore già nella celebre Nota a I nostri antenati (1960).

2 C. Milanini, L’utopia discontinua: saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990, p. 127.

3 M. Zancan, Le città invisibili di Italo Calvino, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, vol. IV, Il Novecento, tomo II, Torino, Einaudi, pp. 875-929.

4 Presentazione a Se una notte d'inverno un viaggiatore, Milano, Mondadori, 1994, p. IX, originariamente in «Alfabeta», 1979.

5 Ivi, p. XIV.

6 Ivi, p. XIII.