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Puškin, “Evgenij Onegin”: trama e analisi

Introduzione

 

Si può dire che l’Evgenij Onegin di Aleksandr Puškin stia alla letteratura russa come la Commedia di Dante Alighieri sta alla letteratura italiana. L’Onegin è infatti il vero e proprio poema nazionale russo, quello che viene studiato a scuola e i cui versi sono mandati a memoria da generazioni di studenti. Scritto in modo frammentario tra il 1823 e il 1830 il poema . che l’autore definiva un “romanzo in versi” . non è compiuto: Puškin prevedeva di scrivere nove lunghi capitoli, ma ne scrisse soltanto otto più alcuni frammenti. Nonostante ciò, l’Onegin rimane l’atto fondativo della letteratura russa moderna e, allo stesso tempo, il suo momento poeticamente più alto: la lingua russa trova infatti nel poema puškiniano il suo codice definitivo e in Puškin il suo più grande interprete, un punto di riferimento per gli scrittori a lui successivi.

Nel giugno del 1880, a Mosca, durante una serie di celebrazioni dedicate alla memoria del poeta, uno dei suoi più grandi eredi, Fëdor Dostoevskij, pronunciò in pubblico il celebre Discorso su Puškin, in cui parlava del suo eccezionale predecessore come dell’autentico poeta nazionale russo e definitiva il poema l’espressione di qualcosa di:

[...] palpabilmente reale, nel quale è incarnata la vera vita russa, con una tale forza creativa e con tale perfezione, quale non era mai esistita prima di Puškin, e forse neppure dopo di lui.

E aggiungeva, poco oltre, che Puškin:

ha mostrato la vera profondità del nostro essere, della nostra società postasi al di sopra del popolo, dipingendoci questo tipo di vagabondo russo esistente ancora ai nostri giorni; egli per primo ha intuito, con l’autentica intuizione del genio, il suo destino storico […] e ha saputo mettergli accanto un tipo positivo di incontestabile bellezza, nella figura della vera donna russa 1.

 

Sinossi

 

Di cosa parla, dunque, l’Onegin? La trama è presto detta: Onegin è un giovane ricco, un dandy piuttosto egocentrico e molto coccolato dagli ambienti nobili di Pietroburgo. Disilluso e annoiato - si direbbe affetto da quello spleen che oltre vent’anni più tardi darà forma a uno dei lavori più celebri di Baudelaire, Les fleurs du mal - si ritira in campagna, dove stringe amicizia con un giovane poeta, Lenskij, che ha invece un animo puro e idealista. I due frequentano la casa della famiglia Larin: Lenskij si fidanza presto con una delle due figlie, Ol’ga, mentre l’altra, Tat’jana, si innamora di Onegin e glielo confessa in una lunga lettera che è uno dei momenti più alti del poema. Onegin respinge Tat’jana e corteggia, per noia e per fare un dispetto a Lenskij, Ol’ga, scatenando la rabbia dell’amico poeta, che lo sfida a duello. Onegin e Lenskij si battono e quest’ultimo rimane ucciso. Alcuni anni dopo Onegin incontra a Pietroburgo Tat’jana, che nel frattempo è andata in sposa a un generale. Stavolta le parti si ribaltano; Onegin si rende conto di amarla e la corteggia, ma lei, pur amandolo ancora, lo rifiuta per fedeltà al marito.

 

Commento

 

Come si vede, quella dell’Onegin è una storia piuttosto convenzionale. Ma non è nella trama che sta l’importanza e la dirompenza dell’opera di Puškin. Il 4 novembre 1823, il poeta annunciò, in una lettera all’amico Vjazemskij, l’inizio del lavoro: 

Quanto alle mie occupazioni, sto attualmente scrivendo non un romanzo, ma un romanzo in versi, ossia qualcosa di diabolicamente diverso, un po’ nel genere del Don Juan. Non penso nemmeno a stamparlo; scrivo come viene.

Puškin era insomma partito da Byron 2, sicuramente una delle sue fonti di ispirazione principali, e nonostante l’apparente noncuranza con cui parlava dell’Onegin, egli era perfettamente consapevole di avere tra le mani una materia incandescente. Sapeva, Puškin, di lavorare a un’opera in grado di concentrare e perfezionare tutti gli aspetti della sua grande creatività: egli definiva infatti la sua opera non poema ma “romanzo in versi” perché in essa si fondono l’epica, la lirica, un grande senso della narrazione e l’azione drammatica, come si vede soprattutto dai dialoghi di cui sono ricchi i versi. L’Onegin è un’opera unica al mondo, dunque, proprio per la sua forma: appartiene a un genere indefinibile che raccoglie e contiene tutti i generi possibili della narrazione e tutti i suoi toni. Nel corso della vicenda si passa infatti dal tono descrittivo a quello smaccatamente sentimentale all’ironia, si scava con una profondità rara nellapsicologia dei personaggi, si traccia un quadro della società e delle polemiche culturali dell’epoca. E tutto questo accade spesso nel giro di pochi versi, grazie alla grande libertà espressiva alla base del poema puškiniano. A questa grande libertà di temi, toni e motivi, corrisponde però una struttura formale piuttosto rigida: ogni capitolo è composto da strofe di quattordici versi giambici (in tutto i versi sono 5541) con il seguente schema di rime:

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Fanno eccezione soltanto alcuni momenti particolari del testo: alla fine del terzo capitolo Ol’ga e Tat’jana cantano in una strofa di diciotto versi trocaici e le lettere che Tat’jana scrive a Onegin (e la lettera di risposta di lui) non rispettano lo schema delle rime. Questo sistema metrico rende il testo di una musicalità mai raggiunta prima e mai eguagliata in seguito nella lingua russa. È questo uno dei grandi meriti dell’Onegin: essere riuscito a creare musica con le parole in un’opera che è anche, allo stesso tempo, il più completo affresco dei sentimenti e degli ambienti frequentati dalla nobiltà dell’epoca.

Molti dei grandi personaggi della letteratura russa successiva hanno qualche somiglianza con Evgenij Onegin: il Pečorin di Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov (1840), il Rudin di Turgenev (1857), l’Oblomov di Gončarov (1859), impastati di noia e mal di vivere, sono solo gli esempi più noti e meritevoli. Ma non sono gli unici e c’è tutto un filone della letteratura russa ed europea che ha nelle opere di Puškin la propria fonte di ispirazione: sono nati o si sono perfezionati in Puškin, infatti, molti dei più fortunati temi letterari ottocenteschi, dal demone del gioco (La dama di picche, 1834), all’epopea del piccolo uomo di fronte al potere (Il cavaliere di bronzo, 1833). Tutta la letteratura russa a lui successiva gli è debitrice, da Dostoevskij a Tolstoj fino ai poeti delle avanguardie novecentesche. Ma gli è debitore soprattutto Gogol’, suo amico e contemporaneo nonché autore di alcuni tra i più grandi capolavori della letteratura europea, tra cui Il naso (1832-1836) e Il cappotto (1842). Pare infatti che il soggetto del suo unico romanzo, Le anime morte (1852), satira feroce e altro spartiacque della letteratura russa, gli fu suggerito proprio dall’amico poeta.

Ma la cosa forse più sorprendente del poema puškiniano - per chi, come noi, non potendolo leggere in originale non ne può apprezzare fino in fondo la leggerezza e la bellezza della versificazione - è l’assoluta, quasi profetica aderenza tra ciò che racconta e la vita del poeta stesso. Anzitutto, l’autore è presente nella propria opera: interviene, commenta, entra in rapporto con i membri della società dove il libro è ambientato; guarda dall’alto il mondo che descrive e lo ritrae, raccontandone i risvolti sociali, il costume, le beghe politiche ed esprimendo opinioni sul proprio tempo. Ma non solo: è stato scritto che nella figura di Lenskij, Puškin avrebbe adombrato se stesso. Forse le cose non sono così semplici, eppure è vero che il poeta si sposò con una delle donne più belle e desiderate di Pietroburgo, Natal’ja Gončarova, che fu a lungo corteggiata - si sospetta con successo - da un barone francese di stanza in Russia: Georges D’Anthès. Gelosissimo, Puškin sfidò a duello il barone, dopo anni in cui la società pietroburghese aveva chiacchierato a proposito dei due amanti. Il 27 gennaio (8 febbraio per il nostro calendario) del 1837 il duello ebbe luogo. Come Lenskij, Puškin riportò una ferita mortale all’addome e spirò due giorni più tardi 3

1 Per leggere tutto il discorso: F.M. Dostoevskij, Discorso su Puškin, Roma, Castelvecchi, 2016.

2 il poema satirico Don Juan, considerato il capolavoro di George Byron, fu lasciato incompiuto alla morte del poeta nel 1824.

3 Sulla vicenda, e sugli ultimi mesi della vita del poeta, Serena Vitale ha scritto un libro che sta a metà tra il romanzo e la ricostruzione storica: Il bottone di Puškin, Milano, Adelphi, 2000.