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"Gerusalemme Liberata": Armida

La bella Armida, nipote del mago Idraote, maga ella stessa, compare nella Gerusalemme Liberata nel IV canto. Qui viene incaricata dallo stesso mago di adoperare la propria bellezza per portare scompiglio tra i cristiani, distrarli dai loro compiti e metterli l'uno contro l'altro. Tra l'ottava 28 e 36 Tasso si sofferma nella descrizione della maga, partendo dall'affermazione della sua bellezza unica: superiore a quella di Elena, Venere, Diana, essa presagisce al lettore il turbamento e la follia che investiranno il campo cristiano. Ogni particolare della bellezza della donna viene ornato di intenzioni amorose e condotto fino al limite della visione di chi la osserva, finché la fantasia non arriva a cogliere anche i particolari sensuali occultati allo sguardo. Nel canto XVI la ritroviamo all'interno del suo giardino incantato in cui Carlo e Ubaldo si addentrano per recuperare e ricondurre al campo cristiano Rinaldo, l'eroe che Armida ha ammaliato e fatto innamorare, ricambiandolo a sua volta. Il giardino di Armida si presenta loro pervaso da una primavera perpetua, in cui «co' fiori eterni eterno il frutto dura/e mentre spunta l'un, l'altro matura» (10, vv. 7-8). In questa natura ricca e raffinata l'amore dei giovani si specchia in una continuità sospesa di estasi e meraviglia. Ma l'incanto di Armida soccombe al richiamo delle armi: tra le ottave 48 e 60 ritroviamo la maga che, disperata per la partenza dell'amato, rinuncia agli intrighi dei pagani e si offre di seguirlo come semplice scudiera: «sarò qual più vorrai scudiero e scudo: | non fia ch'in tua difesa io mi risparmi» (50, vv.1-2), e, in seguito al rigido rifiuto di Rinaldo, donna ferita e assetata di vendetta: «Me tosto ignudo spirto, ombra seguace | indivisibilmente a tergo avrai. | Nova furia, co' i serpi e con la face | tanto t'agiterò, quanto t'amai.» (79, vv.3-4-5-6). Nell'episodio di Armida abbandonata Tasso riprende il tema virgiliano dell'abbandono di Didone e preannuncia, nelle soluzioni linguistiche, il Metastasio della Didone abbandonata. In conclusione del canto XVI, Armida scioglie l'incantesimo del giardino: con un'invocazione rivolta alle divinità infere, una fosca atmosfera sostituisce la leggerezza della precedente. Armida prende il volo col suo carro verso le schiere, ma l'inquietudine delle domande che rivolge a se stessa mostra quel volere e disvolere di un cuore che la passione rende smarrito e contraddittorio e che troverà pace solo alla fine del poema.